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Luca Guadagnino sul set di Challengers. Credit: Niko Tavernise / Metro Goldwyn Mayer Pictures © 2023 Metro-Goldwyn-Mayer Pictures Inc. All Rights Reserved.
E dunque, dopo la piscina e la danza, il tennis. Come un figlio irrequieto, che passi da una disciplina all’altra fingendo di cercare sé stesso. Non è però capriccio da adolescente o vezzo da artista annoiato. Non è nemmeno una faccenda di sport. Challengers potrebbe essere un film sul tennis tanto quanto A Bigger Splash poteva esserlo sul nuoto e Suspiria su un corpo di ballo. Luca Guadagnino ha fatto lo stesso film ma diverso. Lo ha girato in contemporanea con Bones and All, probabilmente alternando le due star di Dune e impiegandole nelle pause di lavorazione dell’epico sci-fi: nel primo ha messo Timothée Chalamet, nel secondo Zendaya. Idoli da Gen Z. Ma non è questo il punto.
È che intorno a Zendaya ha piazzato due signor nessuno o quasi: il biondo scialbo Mike Faist e il bruno impertinente Josh O'Connor, visto sì di recente ne La chimera di Alice Rohrwacher ma certo non una star. La luce a farla breve la emette tutta lei. Anche se il titolo è per loro. Come era accaduto con Jeanne Moreau in Jules e Jim, l’unica di cui ci si ricordi in un film perfidamente intitolato ai due sparring partner maschili. Il triangolo resta ma le geometrie di Guadagnino sono altre da quelle di Truffaut. I duellanti sono tennisti di talento. Art Donaldson il biondo, Patrick il bruno. Identica gavetta, medesimi circuiti, stessa donna: entrambi hanno perso la testa per la predestinata della racchetta, la bellissima Tashi. La posta in palio val più di uno slam. Tra i due nasce contesa, gelosia, infine acredine. Da compagni a rivali. L’amicizia si rompe e anche Tashi si spezza: l’infortunio è grave e la costringe a ritirarsi per sempre. Ma non a lasciare il campo. Si unisce al più solido, più pronto, al meno artista dei due. E dire che si chiama Art. È una macchina da guerra alimentata dall’ossessione della donna. Lei in lui cerca il riscatto. Lui, nelle vittorie, lei. La sua fedeltà e la certezza di continuare a prevalere sull’altro.
Ma non facciamo troppa psicanalisi. Challengers non è un film di giochetti psicologici. Il tennis piuttosto è curioso, non nuovo a certe passioni tra glamour e torbido. A volte finiscono nel rotocalco, vedi l’affaire tra Berrettini e la Satta; a volte nella cronaca nera, come nel caso di Günter Parche, che accoltellò Monica Seles per favorire la rivale Steffi Graf, da cui era ossessionato. Che Guadagnino si sia lasciato sedurre da questo? Non solo. Il tennis si fa a tre anche per quel legame linfatico con il pubblico. Non cerca la mischia e il cameratismo dello sport di squadra, ma la validazione e l’estasi di chi guarda. Il tennis è una forma estetica. Deve essere appagante per chi guarda. Altrimenti è meccanica, monotonia, ping pong. Ecco perché tra le discipline è quella che persegue più convintamente la beltà del gesto, l’inutile ridondanza ai fini della gara. E Guadagnino, che misura le proprie scelte sull’optimum di un occhio desiderante e voracemente carnale, non poteva non essere catturato dai movimenti aggraziati e pieni di armonia di questi moderni discoboli. Per non dire della sensualità dei corpi in tensione, della torsione dei gomiti e dei polsi, del sudore, degli ansimi. O delle ellittiche disegnate sul campo da gioco e di ripresa, sui destini che si biforcano nei viaggi di andata e ritorno di una pallina.
L’estetica trattiene l’erotismo che fluidifica: il mondo si configura secondo congetture ariose, architetture misteriose, poderose e insieme provvisorie. Guadagnino è tutto qui ed è già altrove. Nel ritorno a quell’oscuro oggetto del desiderio che ossessiona il più americano dei nostri registi fin dagli esordi. Desiderio senza sostanza, mutante come i personaggi, specialmente quelli femminili, in cui transita. Dagli occhialoni da Lolita di Dakota Johnson in A Bigger Splash a quelli alla Audrey Hepburn di Zendaya in Challengers, il velo è alle intenzioni, lo schermo alla direzione dello sguardo. Riflesso abbagliante dell’indecisione del nostro. È me che guarda? Se sì, perché? Se no, perché? Figure di carne, donne-madri, di sospiri e di gemiti. Sfingi che custodiscono enigmi impronunciabili. Tashi Duncan è tra queste. Una forza della natura. L’Eumenide del game. Il marito s’inceppa, sportivamente e non solo. Lei lo “invita” a ripartire dai campetti, dai tornei dimenticati, là dove lo aspetta il rivale di sempre, Patrick, anche lui male in arnese, giocatore sfatto e finito. Il triangolo si ricostituisce in tensione agonica.
È ancora l’antica vicenda di Elena di Troia? O in questa nuova e più luminosa avventura del desiderio Guadagnino vuol forse dirci altro? Se, di nuovo, è la passione patologica ed eccentrica di altri suoi film che inchioda i duellanti al carattere definitivo e senza scampo della loro sconfitta, del vivere nella chiusa solitudine del proprio risentimento, dove sta la liberazione? Se in Bones and All il desiderio spolpava letteralmente i protagonisti sublimandosi in fame d’amore, qual è lo smash che il regista stavolta riserva?