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Franz Kafka in un'illustrazione di Benedetta Corporente
La produzione cinematografica ispirata ai libri di Franz Kafka (oggi, 3 giugno sono 100 anni dalla sua morte) non poteva essere che paradossale. Nonostante la popolarità planetaria delle sue opere anche oggi nella società algoritmica, la loro sotterranea persistenza in certi filoni di cinema politico e distopico, ad oggi si contano pochi adattamenti dei suoi libri, nonostante lo scrittore sia stato da giovane un amante dei primordi del muto, e più in là anche un teorico di cinema. I registi mostrano, in vario modo, di aver usato l’autore del Castello spesso come lente per interpretare e denunciare incubi, storture ideologiche, oppressioni del tempo.
Anche quando si tratta di soggetti originali, tuttavia, prevale la reinvenzione personale, l’attualizzazione creativa alla trasposizione filologica. Kafka, insomma, come premonizione ed enciclopedia del presente, ma da consultare e celare. Nel complesso si è affermato un approccio obliquo, indiretto, spesso postmoderno, che non di rado porta i segni dell’incompiuto (emblematico il caso di Federico Fellini nella meta-biografia Intervista). Diversamente dal ciò che accadde e accade a teatro, da Denis Villeneuve (Enemy) a Terry Gilliam (Brazil) a Marco Ferreri (L’udienza, ma anche La donna scimmia), passando per Filip JanRymsza (Mosquito State) e soprattutto Spike Jonze (Essere John Malkovich) l’impressione è che Kafka sia talmente tanto meditato e assimilato dalla cultura di massa che registi e sceneggiatori lo impiegano inconsciamente, dandone per assodata la persistenza nell’immaginario collettivo.
Si ricorre a Kafka per interrogare il presente, convalidandolo come serbatoio subcosciente e condiviso di una rappresentazione oppressiva del potere, dello smarrimento dell’uomo medio, della spersonalizzazione burocratica, della distopia grottesca. Tratti universali spesso piegati a risemantizzazioni proprie, tra il fantasy e il dramma. Emblematico è in questo senso il caso della Nová vlna: il cinema d’avanguardia cecoslovacco all’alba dei Sessanta non vanta trasposizioni dirette dei suoi libri, eppure com’è kafkiano, spesso per astrazione simbolica, il ritratto di antieroi frustrati dal contesto sociale, funzionali a ribadire l’insofferenza generazionale e la disappartenza alla società di regime (i più ricettivi in questo senso sono Věra Chytilová, Jan Němec e il primo Milos Forman).
Più o meno negli stessi anni, pure Woody Allen sogguarda, tra gli altri, Kafka nelle parodie antirivoluzionarie (Il dittatore dello stato libero di Bananas e Il dormiglione), nell’idealizzazione dell’amore mai svincolato dall’impaccio sessuale (Io e Annie), nell’alienazione dell’io (Ombre e nebbia), nei cambi di identità (Zelig). A ben pensarci, perfino un certo cinema di Marco Bellocchio si rivela (anche) kafkiano quando s’innerva di accadimenti assurdi, dissociazioni psichiche, allucinazioni, incomunicabilità famigliare, incubi e metamorfosi irreversibili: sovviene alla mente, tanto Maddalena de La visione del sabba, quando il palazzo e la vita giudiziaria de La condanna, senza dimenticare Ida Dalser di Vincere e Edgardo Mortara, il bambino ebreo Rapito e convertito a metà Ottocento da Pio IX. Indubbiamente, poi, il corpo di polizia corrotto e autocratico, la burocratizzazione e la dialettica interna del potere, i civili inermi che subiscono e non capiscono i magheggi alla base di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto rendono anche Elio Petri debitore dello scrittore.
Di recente Ari Aster in Beau ha paura ha colorato d’echi kafkiani, incubi e inibizioni del suo protagonista, mentre è notizia recente che Agnieszka Holland sia al lavoro proprio a Praga su un biopic dedicato allo scrittore ceco. Quanto alla filmografia kafkiana, detto di Fellini, brilla ancora la stella di Orson Welles: nel 1962 l’ex wonder boy di Hollywood, che da tempo covava desideri di regia intorno a Il processo, incurante degli strali critici, bandì la fedeltà e il monologo interiore di Kafka, impose la sua autorialità, stravolse il finale del libro, e rese Anthony Perkins (Psyco) un Joseph K. più che dimesso, ringhioso e ironico. Ne uscì una sarabanda corale, allucinatoria, oppressiva, virtuosistica, espressionistica. Ma Welles mostra di aver attinto dal nichilismo kafkiano sin da Quarto potere (Jorge Luis Borges dixit). In Italia, intanto, Il processo fu dilatato in uno sceneggiato Rai di Luigi Di Gianni nel 1978, mentre in Germania nel 1997 un altro adattamento televisivo, Il castello, fu diretto da Michael Haneke (Dass Schools in originale).
Detto di due deludenti drammi, ispirati al racconto antimilitarista Nella colonia penale (il nostro Giuliano Betti nel 1988 dirige John Armstead e Franco Citti nel pauperistico Kafka La colonia penale, ma prima, nel 1970, lo sperimentalista cileno Raúl Ruiz piegò la storia al clima della Guerra Fredda), vale la pena menzionare la rielaborazione tutto sommato fedele di America, romanzo simbolo del Novecento, ad opera di Straub e Huillet in Rapporti di classe (1984). Così l’operazione più interessante, teorica e postmoderna degli ultimi decenni porta la firma del Soderbergh di Delitti e segreti (1991): un thriller a tinte grottesche forse imperfetto, ma sicuramente capace di restituire atmosfere, snodi e personaggi in bilico tra Il castello e Il Processo, con un Kafka qui in versione detective impersonato da Jeremy Irons. Tuttavia, com’è intuibile, La metamorfosi è il testo che ha ricevuto più cure dal cinema negli ultimi decenni: è ispirato al celebre racconto l’omonimo film del russo Valeri Fokin, mentre Chris Swanton nel 2012 scelse l’horror per dirigere Robert Pugh e Maureen Lipman in Methamorphosis.