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Zucchero - Sugar Fornaciari @Matteo Girola
Sebbene non si parli di Dio, è palpabile la tensione spirituale che anima Zucchero – Sugar Fornaciari, il documentario sul maggiore bluesman italiano, tra i nomi internazionali del nostro cantautorato.
Evento speciale prima a Roma (in anteprima oggi alla Festa), poi in sala (dal 23 al 25 ottobre con distribuzione Adler), è un’autobiografia musicale autorizzata (la Zucchero & Fornaciari Music S.r.l. ha collaborato con la produzione) che guarda al trend del cinema karaoke (non solo il film-concerto su Taylor Swift, ma quello in arrivo di Beyoncé) dallo specchietto retrovisore del bisogno di guardarsi indietro e provare a mettere un punto.
Vanità ne abbiamo, evidente, al punto che si può tranquillamente prendere Zucchero – Sugar Fornaciari per autoindulgente discorso libero indiretto di autorevoli testimoni : da Bono a Sting, da De Gregori a Guccini, da Paul Young a Brian May. A differenza però della serie Netflix su Vasco, Supervissuto, il vissuto del musicista emiliano non supera la musica: sta anzi un passo dietro al repertorio.
La regia di Valentina Zanella e Giangiacomo De Stefano sceglie una chiave prettamente musicale per indagare il mistero Zucchero, dispensando note e archivi, apparizioni televisive e performance live, legate a metronomo con il patchwork di interviste. La cronologia sfalsa i tempi, segue il filo invisibile tra ballate struggenti (si parte da Diamante), pezzi ritmati (con una bella parentesi su La sesión cubana), collaborazioni incredibili (curioso l’aneddoto su Eric Clapton, che andò a sentirlo ad Agrigento e poi gli chiese di fargli da artista-spalla per una serie di concerti londinesi) e insight privati appena accennati (dalla figura della nonna alla depressione che lo perseguitò per sei lunghissimi anni).
È un giro di accordi che torna sempre al punto focale, a quella inopinata appartenenza al blues che, come diceva Joe Cocker, non si insegna e non s’impara. Ce l’hai. Non è il ritrovare la Louisiana nella Lunigiana (per quanto la tenuta di Pontremoli del musicista, Lunisiana Soul, lo faccia pensare) o i campi di cotone nelle risaie dell’Emilia. È una strana nota dell’anima, che si esprime in un credo musicale riconoscibile dagli adepti.
A questa strana confraternita di sound e sangue, Zucchero (il nomignolo è della maestra delle medie, concepito in virtù della dolcezza del ragazzo) regala una melodiosità tutta italiana, affiorante armonia dalla ruvida voce di terra.
Tramite la lingua del blues e del soul che come una corrente bagna famiglie diverse di musicisti e intuisce sintonie impossibili (perché altrimenti Così celeste diventerebbe il tormentone di Natale in Islanda, come una Jingle Bells qualunque?), Zucchero – Sugar Fornaciari ricalibra il dilemma identitario di ogni biopic – chi sono? – nella più ampia questione genealogica: di dove sono? “Io vengo da un’altra terra, da un altro paese, da un’altra solitudine. Tu non sei di queste parti, non parli agli argini, non parli ai matti e i cani ti abbaiano”, dice citando l’amico poeta Gino Belli.
Indizi di una ricerca per immagini altrimenti vellutata, che a tratti trova, se non un approdo, almeno una direzione, l’idea di una Patria invisibile a cui si può appartenere solo da esuli in vita. Il tormento di uno sradicato non è nel non avere radici ma nel sentire che le proprie radici stanno sempre altrove.
Dove? La chiusa del doc è un virgolettato di Marvin Gaye: Ovunque posi il mio cappello quella è casa mia.
Parole finali, non ultime parole.