Con la maschera, la cappa e la spada, Zorro ha attraversato la pop culture, grazie soprattutto alla serie degli anni Cinquanta, cavalcata da Guy Williams (1957-1959) e trasmessa praticamente in tutto il mondo.

A interpretarlo sullo schermo nel 1975 è Alain Delon, che gli strappa i baffi e ne fa l’eroe più bello sulla faccia della terra, innamorando occhi e cuori. Ma il giustiziere mascherato, nato nel 1919 dalla penna di Johnston McCulley, non è affatto una tradizione francese. Il pre-supereroe è rimasto a lungo un affare americano. Dopo Douglas Fairbanks e Tyrone Power agli albori del cinema, dopo Guy Williams nella serie Disney amata dai bambini degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, dopo Antonio Banderas nella cavalcata di Martin Campbell, che rispetta tutti i passaggi obbligati, tutto quello che uno Zorro deve fare - appendersi a un lampadario, abbattersi sui soldati spagnoli, giocare con la frusta, cavalcare Tornado e ridere grassamente del sergente Garcia – è la volta di Jean Dujardin. Mélange di DNA francese e touche hollywoodiano, è l’uomo giusto per il ruolo. È un’evidenza grafica: sorriso ultrabright, ‘classe popolare’, aria guascona, sopracciglia mobili sullo sguardo di fuoco, l’attore sembra disegnato per interpretare Zorro.

Sceneggiata e diretta da un team giovane, o quasi, la versione di Benjamin Charbit e Noé Debré (sceneggiatori), Jean-Baptiste Saurel ed Émilie Noblet (registi) tenta un colpo ambizioso: mescolare cappa e spada, romanticismo e commedia de remariage. Don Diego de la Vega, vessato dal padre di giorno (André Dussollier), conduce una vita eccitante di notte, quando infila la maschera per opporsi alle mire dei cattivi locali di turno e ristabilire una forma di uguaglianza nella piccola città di Los Angeles, allora provincia del Messico. Girato in Andalusia, la regione di predilezione di Sergio Leone, Zorro non è una produzione improvvisata, i grandi mezzi si vedono anche se la spettacolarità del ‘cappa e spada’ non è certo l’aspetto più interessante. A distinguerla, nonostante l’umorismo datato, è il suo tentativo di romanticismo e di ibridazione. Perché la serie si concentra sulle emozioni del suo eroe, la sua doppia vita e sua moglie, beh la moglie di Don Diego de la Vega (Audrey Dana), con la quale Zorro inizia una torrida relazione. Insomma, in un matrimonio stanco Don Diego de la Vega crea il desiderio per Zorro, l’altra versione di sé stesso. Il racconto evolve progressivamente in una commedia di ri-matrimonio, un classico genere hollywoodiano, un classico ‘terreno di scontro’ che dipana agilmente una dialettica vivente di stabilità e di instabilità, un gioco di maschere che cadono e di desideri che si impennano come Tornado. Dujardin passa dalla fatica esistenziale all’eroismo vibrante, dalla fiacchezza alla vivezza, rubando al suo leggendario agente segreto (OSS 117) gli ammiccamenti, la saccenteria e il piacere ingenuo della rissa. Trasforma Don Diego in un personaggio nevrotico, torturato dal padre castratore e incapace di soddisfare la moglie Gabriella, che lo tradisce col suo doppio e impiegherà otto episodi per riconoscere il marito dietro la maschera del giustiziere.

La serie decostruisce un certo modello di virilità, invitandoci forse a diffidare degli uomini provvidenziali e riconfermando l’espressione ambivalente di Dujardin, che riposa su una combinazione di mascolinità ordinaria e mascolinità “in crisi”, tra l’affermazione del principio sociale e politico dell’uguaglianza di genere e l’emergere di un moderno maschilismo reazionario. Ma l’attore francese non è l’unica porta d’ingresso alla serie spalancata su forme di umorismo più elementari e immediatamente spassose. Si ride di gusto per la commedia degli equivoci, quando nasce un ‘malinteso’ tra Gabriella e Bernardo, il servo muto (ed espressivo) di Zorro, interpretato da Salvatore Ficarra, all’incrocio tra un comico Keystone e un fanfarone della commedia dell’arte. L’attore siciliano crea un esilarante linguaggio dei segni mentre Don Diego e Zorro, rivali nel cuore di Gabriella, escono dalla porta e rientrano dalla finestra. E poi c’è lo spirito comico e poetico di Grégory Gadebois, brillante nel ruolo del sergente Garcia, qui filosofo depresso ed eternamente ossessionato dal suo miglior nemico. Zorro non tiene sempre il ritmo e la meccanica qualche volta gira a vuoto, risolvendosi sul territorio del puro sentimento che metterà tutti d’accordo su Paramount+. Eludendo la dimensione di favola politica al servizio degli esclusi, la serie si fa senza complessi spettacolo familiare e parodico che ravviva a colpi di spada i ricordi della nostra infanzia e di un vecchio ritornello: “…a cavallo di notte colpisci Zorro, Zorro, Zorro… è la Z la firma