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Jake Gyllenhaal è
il vignettista Graysmith
Il cinema, si sa, è un'altra cosa: se l'ispettore David Toschi e il suo secondo William Armstrong affondano lentamente nella plaude del caso dello Zodiaco (un serial killer "attivo" dal 1969), destinato a non trovare soluzione, sullo schermo Clint "Harry la carogna" Eastwood ha invece la meglio su Scorpio, in una San Francisco non molto diversa, e non diversamente terrorizzata, da quella in cui vivono e lavorano i due poliziotti. La "seduta" è per metà psicoanalisi di gruppo (la legge, prima o poi, trionfa), per metà uno sfottò nei confronti della realtà; a Fincher, invece, la scena ambientata in un cinema in cui si proietta Dirty Harry (1971) serve per chiarire da che parte sta il suo film rispetto alla tradizione del poliziesco. In Zodiac non ci sono eroi, soluzioni dritte, trionfi, e neppure il fascino perverso del serial killer, a cui ci hanno abituato i Lecter, prima, i Jigsaw poi. E la paura è destinata a restare, anche se dopo un po' la si dimentica e dalle prime pagine dei giornali scivola via, riducendosi a qualche trascurabile trafiletto. Soprattutto, mancano in Zodiac lo scontro, la sfida, la resa dei conti. Il plot s'inceppa e la drammaturgia si fa noiosa; la realtà non imita l'arte, e anche se Toschi porta la pistola come Bullit, non ha occasione di usarla. Le armi restano a riposo, e a poco a poco le vite dei personaggi direttamente toccate dalle azioni dello Zodiaco (oltre ai due poliziotti, un giornalista del San Francisco Chronicle, Paul Avery, e il vignettista del giornale, Robert Graysmith), tornano alla normalità.
Per la recensione completa leggi il numero di giugno della Rivista del Cinematografo