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Zamora
Anni Sessanta. Il trentenne tuttologo Walter Vismara (Alberto Paradossi), ragioniere in provincia, causa crac aziendale è catapultato dalla quieta Vigevano alla rampante Milano nel pallone, dalla casa d’infanzia con mamma e papà a quella della sorella separata. I ritmi in città e in azienda sono frenetici, ma l’impiego è gratificante e favorisce incontri galanti alla macchinetta del caffè. Tuttavia il goffo Walter, sdegnando il calcio, si ritrova assalito dalla febbre del folber (il calcio in lombardo per Gianni Brera) che contagia tutti i piani dell’avveniristico ufficio, soprattutto quelli alti dove impera il cavalier Tosetto (Giovanni Storti).
Oltre al fatturato, infatti, in fabbrica è d’obbligo tenere all’Inter e ben figurare alla partita Scapoli contro Ammogliati del giovedì sera, preludio alla sfida campale del Primo Maggio officiata dal cavaliere in persona come dalle impiegate. Così Walter per tenere il posto e conquistare la dolce Ada che sembra flirtare con il rivale Herber (Walter Leonardi), si reiventa interista e portiere. Nel nome di Ricardo Zamora Martinez (leggendario estremo portiere spagnolo), il ragioniere ingaggia Giorgio Cavazzoni (se il personaggio è fittizio, il nome omaggia il felliniano Ermanno?), altro prodigio con i guantoni, che ora affoga nell’alcool e nella solitudine la tristezza per gli errori commessi tra campo e famiglia.
È la sentita, aggraziata, apprezzabile operazione nostalgia del classe 1966 Neri Marcorè che sceglie la commedia gentile per l’esordio alla regia – “invisibile” come prescrive il genere -, canonizzando (ancora) il mito prosperoso dell’Italia del Boom, dimentica della guerra, consumista, aziendalista, fiduciosa nell’avvenire e ammattita per il pallone.
Con Pacifico, Bindi e Fontana come commento sonoro e Fantozzi come nume tutelare (nella deformazione dei caratteri, nelle partite nella nebbia, come nell’ufficio fotografato da Cimatti e scenografato da Bocca), Marcorè riporta in vita una Milano gaberiana di osterie e partite alla radio, di emigranti e polentoni, di Fiat 500 e sale da ballo. La tv in salotto la domenica, il cinema il sabato. Lascia o raddoppia? e Giulietta degli spiriti.
I feticci del bignamino anni Sessanta, però, sono figli di una scrittura accurata (lo stesso Marcorè con Careddu e Rossi che rileggono il romanzo omonimo di Perrone) che riesce a restituire e insieme vezzeggiare spirito, manie e valori di un’epoca perduta.
Una sceneggiatura che favorisce soprattutto, a discapito forse dei comprimari, la prova del protagonista Alberto Paradossi, di nuovo convincente come impacciato dal cuore d’oro in un mondo in cui conta solo il calcio, dopo la dimenticabile serie The Net. Luci e ombre, invece, si allungano sulla prova di Marcorè: il neoregista convince come spalla nei panni del mentore ingrugnito e alla deriva, meno in quella del “cavernicolo alcolizzato” e scostante.
Insomma se non tutto è riuscito nelle caratterizzazioni che modulano il cast corale (e nella gestione della sottotrama rosa), convincono l’affresco storico e lo straripante afflato malinconico del film.