Con Homecoming, Wang Bing chiude la trilogia documentaristica di Youth, girata nell’arco di cinque anni e dedicata a un gruppo di giovani lavoratori tessili emigrati nella città cinese di Zhili e, parallelamente, completa la “copertura” dei tre principali festival europei: il primo titolo, Spring, era a Cannes 2023; il secondo, Hard Times, è stato presentato appena un mese fa a Locarno; quest’ultimo arriva in Concorso a Venezia 81. Della triade, il terzo è il più breve (152 minuti contro i 212 e i 227 dei precedenti) e si concentra sulle vacanze di Capodanno, momento in cui le industrie si svuotano e i pochi lavoratori rimasti aspettano lo stipendio da investire per il viaggio di ritorno a casa (da cui il titolo di questo capitolo finale).

Nel seguire i destini dei protagonisti (qui c’è una particolare attenzione verso Shi Wei e Fang Lingping, entrambi prossimi al matrimonio), Wang riflette sul concetto di trasmissione, dando spazio all’ascesa di una nuova generazione di lavoratori. È il ciclo della vita cinese: il lavoro come unica ragione, il riposo è un lusso che non ci si può permettere e guadagnare denaro diventa l’unica possibilità per sopravvivere e, magari, almeno immaginare una vita migliore.

Wang racconta il lavoro mentre i lavoratori sono fermi, lasciando che gli spazi diano il senso dell’oppressione (i treni affollati, le fabbriche claustrofobiche, i villaggi pericolanti) e il silenzio inondi quelle immagini che prima erano definite dal rumore di macchine incaricate di dare il ritmo ai giorni, ai battiti, ai bisogni.

C’è una radicata malinconia in Youth (Homecoming) e, benché abbia il desiderio di mettere le cose a posto, Wang non forza la mano alla realtà (il sistema è storto se non crudele) e, piuttosto che offrire un margine di vana speranza, preferisce restituirci uno spaccato socioculturale a tratti devastante, in cui l’atto del lavorare diventa surrogato dell’esistere e la tensione verso il futuro non può prescindere dalla preoccupazione per il presente.

È uno degli ultimi film fieramente e ferocemente anticapitalisti possibili, didascalico e un po’ monotono finché si vuole, ma che dimostra come Wang sappia ritrarre la questione sociale della classe operaia senza proclami programmatici né schemi intellettuali, solo mettendo in scena con umiltà e rigore in gesti quotidiani che ne determinano il destino, costruendo una preziosa epica popolare e umanista.