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Dopo il passo falso di The Great Wall, Zhang Yimou ritrova lo smalto dei suoi wuxiapan migliori (Hero e La foresta dei pugnali volanti) ma quasi adoperando una sottrazione in termini di spettacolarizzazione a favore di un ragionamento che sembra sorpassare il “semplice” intreccio narrativo.
Shadow, ambientato durante l'epoca dei Tre Regni, racconta la storia di un re in esilio, del suo comandante e della lotta per riprendersi tutto quello che gli è stato tolto.
Ma prima di arrivare davvero a comprendere l’intera strategia – bellica e cinematografica – Zhang Yimou si concentra sulla figura che dà il titolo stesso all’opera, l’ombra costretta a prendere le sembianze di qualcun altro.
Una didascalia iniziale ci spiega che in quel periodo storico era pratica comune che figure di spicco come generali o comandanti si servissero di sosia per evitare di essere vittime di qualche agguato e salvaguardare così la propria vita.
Il film carbura lentamente, all’inizio – soprattutto per la caratterizzazione così guascona e incurante del re – sembra un divertissement in cui la girandola di personaggi a corte costringe lo sguardo a non perdersi tra le maglie di intrighi e giochi di potere.
Ma quando la partita a scacchi entra nel vivo, con lo spostamento decisivo di alcune “pedine”, ecco che Shadow spicca il volo verso la gloria: è qui, sotto una pioggia torrenziale, alle porte di una città da riconquistare, che lo spettacolo prende vita, riportando le coreografie di duelli epici al centro del cinema di Zhang.
Che porta alle estreme conseguenze il discorso sul doppio/ombra, in un finale dagli ennesimi capovolgimenti.