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Un po’ alla chetichella, per alcuni versi con una certa sorpresa visto l’impatto mediatico della vicenda nell’ultimo decennio, arriva su Netflix Yara, che ricostruisce l’indagine condotta dalla PM Letizia Ruggeri per trovare l’assassino della tredicenne scomparsa nel 2010 a Brembate di Sopra.
A partire dalle tracce di DNA trovate sul corpo della povera ragazza, il magistrato promosse un enorme screening di massa con l’obiettivo di raccogliere il maggior numero di campioni. Indagine straordinaria che ha fatto scuola, certo costosa e contestatissima dai politici del territorio a dir poco scettici sui metodi applicati.
Com’è noto, la ricerca portò all’individuazione del cosiddetto Ignoto 1, poi identificato nel muratore Massimo Bossetti, poi condannato e che tutt’ora si proclama innocente contando sul sostegno di settori dell’informazione allineati sulla tesi innocentista.
Realizzato senza coinvolgere la famiglia della vittima né quella del colpevole, Yara si concentra soprattutto su Ruggeri, che si è fatta le ossa investigando sulla mafia e ritrovatasi in una procura bergamasca oppressa dalle ingerenze politiche (il bisogno di avere subito un mostro a uso e consumo della propaganda) e dai conflitti tra i corpi (l’eco delle rivalità tra polizia e carabinieri).
Isabella Ragonese dà corpo a una detective risoluta ma che non rinuncia a manifestare le vulnerabilità derivate anche dal suo essere madre. La caparbietà professionale si incrocia con il coinvolgimento emotivo che procede sulla linea dell’empatia con la mamma di Yara (Sandra Toffolati). E il film sceglie proprio di mettere in scena l’indagine di una madre alla ricerca della verità, desiderosa di ottenere giustizia per una ragazzina come tante che poteva essere sua figlia.
È l’unica caratteristica che fa uscire (di poco) Yara da uno schema elementare, dalla ricostruzione paratattica e didascalica e senza guizzi che segue un modello ormai logoro di fiction didattica incardinata sulla “cronaca nera romanzata” e sul “legal drama civile” nello stile della Taodue di Pietro Valsecchi.
Se non sorprende che a scrivere il film sia Graziano Diana, sceneggiatore di fiducia della casa, ci sembra più interessante vagliare la posizione di Marco Tullio Giordana. Regista discontinuo, forse più agio con i grandi affreschi, sa adottare un linguaggio chiaro nel rendere fruibile la macchina dell’indagine ma in questo caso non riesce a dare tridimensionalità a personaggi ridotti a funzioni, passione all'inchiesta, profondità ai passaggi. Più Giuseppe Ferrara che Damiano Damiani, tutto sommato.