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Yannick - La rivincita dello spettatore
Irriverente. Caustico. Grottesco. Assurdo. È Dupieux in purezza, sempre in punta di spada. Dopo i concettosi Runner e Wrong, ecco il nevrastenico Yannick, premiato allo scorso Locarno, prima dell’anteprima a Torino e il successo in Francia.
Del precedente, veneziano Daaaaaalì, Mr Ozio recupera le provocazioni su senso e utilità dell’arte aggiungendovi il filtro meta-filmico, anzi meta-teatrale. Rotta la quarta parete, attore e spettatore, entrambi inappagati, finiscono l’uno contro l’altro: il corpo a corpo è tensivo, sguazza nel grottesco, inclina all’assurdo, si puntella dei classici paradossi di senso, ruoli, visioni e morale.
Miccia e detonatore dell’insubordinazione (vagamente pirandelliana) è Yannick (un allucinato Raphaël Quenard), giovane, repressa guardia notturna. Un’ora di tragitto – quarantacinque minuti di autobus e un altro quarto d’ora a piedi - per avvilirsi di fronte ad una tragicommedia degli equivoci: lei che cornifica lui che, benché sgomento, vuole conoscere l’altro. Per troppo squallore lo spettatore, rivoltella in mano, interrompe lo spettacolo, accusa il regista assente, ridicolizza gli interpreti e, sequestrando il poco pubblico, computer e stampante sul palco, riscrive la pièce a modo suo.
Potere, insomma, ad un perfetto nessuno (novecentesco) per un’arte che sia ancora e sempre alleggiamento, dimenticanza, evasione, elevazione dalle miserie del quotidiano.
SeYannick riscava quello steccato tra esistenza e performance insabbiato dagli artisti, arando furiosamente uno scarto ideale tra quotidianità e palcoscenico, Dupieux regredisce, confondendosi nella psiche della platea: la regia minimale, sovente statica, a limiti dell’invisibilità fa emergere, per paradosso e per assurdo, la pietas per il suo sabotatore schizoide, come per l’anziano che se ne va seccato nel mezzo del sequestro, per la madre e il figlio sonnolento, per le due amiche complici, ma con due appartamenti diversi.
Un microcosmo costretto a subire la performance di artisti sconnessi dal pubblico, perfino autoreferenziali; mentre la satira bordeggia l’assurdo e cerca il nonsense, sono loro a finire spernacchiati. Il declassamento dei tre interpreti è totale, il talento nullificato, ma l’affronto fa emergere gli infingimenti, i bocconi amari, le miserie nascoste (nel copione) della vita: su tutte la frustrazione sessuale che riflette quella per una carriera di ripiego.
Amarezze e disinganni di un film chiuso in platea, forse troppo premeditato, sicuramente programmatico, comunque scomodante, contraddittorio, populista. Parteggia per i dilettanti e i derelitti Dupliex, eppure espande e consacra la bulimia autoriale (il regista qui è anche, come di consueto, sceneggiatore, montatore e co-produttore), nonché l‘urticante necessità di imporre uno sguardo altro a quello sedimentato, convenzionato dai riti, dai secoli.
Così, al netto di più snodi narrativi un po’ smottati – la durata striminzita certo non aiuta – resta l’indagine caustica, comunque pregevole sull’arte come forma di imposizione di chi la fa, ma anche come diritto alla dimenticanza per chi la fruisce.