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World War Z possiede tutte le carte in regola per diventare un successo planetario (e i primi riscontri al botteghino americano sembrano avvalorare questa ipotesi). Storia sulla carta avvincente, ritmo mozzafiato, potenziale visivo da vendere.
E poi Brad Pitt. Il miracolato. Passato incolume dallo spappolamento dello star system hollywoodiano. Prossimo ai 50. Dotato ancora di un certo ascendente ai quattro angoli del globo. E in effetti lui si spende e spande ovunque, per vendere il prodotto ed emendare il pianeta da piaghe, mostri e pestilenze.
Horror virologico World War Z. Brad Pitt è un agente della Nazioni Unite, marito e padre modello. Il mondo invece è un casino. Una misteriosa pandemia sta decimando la popolazione a velocità inimmaginabili. La sintomatologia è romeriana: esseri una volta umani, schiumanti rabbia e nocività, si aggirano feroci in città messe in quarantena cercando non un buon igienista dentale (di cui pure avrebbero bisogno) ma altri umani sani da addentare. Li chiamano “zecche” e non muoiono.
Brad Pitt viene prelevato dai militari, la famiglia messa al sicuro su una piattaforma galleggiante in mare aperto. Lui deve scegliere: o collabora o sarà rispedito con i propri cari nelle fauci dell'epidemia.
Collabora. Scortato dai militari, si sposta da una parte all'altra del globo, nelle viscere dell'infezione. Deve osservare, trovare una cura, fare attenzione a non farsi azzannare. Va di qua e di là, dalla Corea del Sud, culla del morbo, a Gerusalemme, dove il grande Muro della Salvezza (sic!) è stato eretto per isolare la città e separare il grano dei salvati dal loglio dei dannati. Altrove l'inferno.
World War Z gioca, ma non troppo, con i materiali della cronaca e i sinistri simboli del nostro evo: in una delle scene più riuscite uno degli zombie riesce a infilarsi nell'abitacolo di un aereo scatenando il panico. In un'altra questi corpi macilenti, nel tentativo di risalire il Muro di Cui Prima, si ammassano gli uni sugli altri in una formazione iconica d'infausta memoria (Auschwitz?).
Più che ai Morti viventi di Romero, lenti, politici e poco temibili, World War Z guarda però ai quasi coevi 28 giorni dopo, Io sono leggenda e La città verrà distrutta all'alba, con i quali condivide un'idea di messa in scena meramente fisica e una spiccata vocazione spettacolare.
Scritto da Matthew Michael Carnahan (Leoni per agnelli, State of Play) e diretto dal discontinuo Marc Forster (Monster's Ball, Quantum of Solace), il film nasce nel solco dell'ossessione epidemiologica di questi anni. Contagi finanziari, virus informatici, focolai del terrorismo, marketing virale. Il lessico patologico dell'era globalizzata. Un tempo che, ha scritto Ugo Volli, persegue la salute ma in effetti crede solo nella realtà della malattia.
Prodotto moderno, World War Z - in cui fa capolino anche il nostro Pierfrancesco Favino in un ruolo a sorpresa ma non completamente necessario - presta il fianco a un simbolismo elastico che autorizza ogni sorta di lettura: nulla vieta di vedere negli Zombie un esercito di rivoltosi senza patria e senza missione che minaccia la distruzione del mondo occidentale e delle sue fondamenta (la famiglia). Né cogliere, accanto al tradizionale approccio sociopolitico, riferimenti allo smottamento delle culture, ai pericoli della scienza, ai paradigmi pervertiti della globalizzazione.
Del resto l'epidemia è, sin dai tempi di Tucidide, uno stratagemma narrativo formidabile. Crea un climax, produce conflitti, rivela i nostri lati peggiori. E' un motivo che rimanda tanto al rischio dell'autodistruzione umana quanto al bisogno della sua palingenesi.
Il cruccio è che in World War Z le potenze (reali e allegoriche) del virus esplodono solo in parte. Forster & Co. avevano tra le mani l'immagine di un mondo governato dal panico, saturo, mosso e in perenne movimento. Lo shock psico-sensoriale poteva essere esasperato da un utilizzo aggressivo del 3D, la visione seduta sopra una bomba ad orologeria. E' prevalsa invece la prudenza, l'ottica sulla - per la - famiglia. Un giro di giostra dove tutto scorre davanti, senza mai toccarci, disturbarci. L'eco pesantemente attutita di un “presentimento inesorabile”, quello di cui parlava Baudrillard. Un sentimento d'attesa, d'angoscia, di cui non si può dire altro se non il ritmo. L'idea che non c'è più tempo.