Nel 1692, nella Livonia svedese (l’attuale Estonia), l’ottantenne Thiess di Kaltenburn viene processato per licantropia. Al tempo era considerato un crimine demoniaco al pari della stregoneria. Quello di Thiess di Kaltenburn è uno dei casi più noti in letteratura sul fenomeno degli “uomini lupo” (se ne occuperà anche Carlo Ginzburg ne I Benandanti). Eppure, processi simili nell’Europa cristiana del medioevo non erano così insoliti. Solo in Francia, tra il 1540 e il 1620, si contano oltre 30 mila accuse di licantropia. Col secolarismo le cose cambiano. La licantropia viene derubricata a superstizione o, al limite, agli effetti di un morbo deformante.

Folklore e trasmissione virale da allora rappresentano la cornice in cui si muove il cinema dell’orrore, a partire dal classico Universal del 1941 di George Waggner. Con accenti maggiori ora sull’uno, ora sull’altro. Un lupo mannaro americano a Londra di John Landis (1981) evoca l’origine satanica del fenomeno, mentre quest’ultima incarnazione targata Blumhouse (con Universal, ça va san dire) suggerisce l’eziologia medica, rendendo “realistica” anche la mutazione fisica, a metà strada tra la licantropia clinica e la mosca cronenberghiana.

Attenzione, il film scritto e diretto da Leigh Whannell, non vuol essere un racconto realistico. Una sorta di variazione sul tema accettabile anche per i positivisti. Semmai, rilanciando l’intuizione de L’uomo invisibile (altro classico rimaneggiato da Whannell in piena pandemia), la sua è una interpretazione psicosomatica di un male misterioso quanto si vuole ma profano e non certo esoterico. La cornice è ancora una volta la famiglia e la tossicità dell’elemento maschile al suo interno.

Ne L’uomo invisibile era il ben manifesto patriarcato. Qui, tra i montanari dell’Oregon che credono di doversi preparare tutta la vita ai nemici che arriveranno, che portano i figli a caccia e da loro si fanno appellare con un perentorio “Sì, signore”, Male è una cultura del sospetto, muscolare e belluina, ignorante e astiosa. È questa a trasformare dei padri in uomini-lupo e a costituire la vera minaccia per la comunità, familiare e sociale.

Ginger (Matilda Firth, right) in Wolf Man, directed by Leigh Whannell. © 2024 Universal Studios. All Rights Reserved.
Ginger (Matilda Firth, right) in Wolf Man, directed by Leigh Whannell. © 2024 Universal Studios. All Rights Reserved.
Ginger (Matilda Firth, right) in Wolf Man, directed by Leigh Whannell.

“Ci preoccupiamo talmente tanto di proteggere chi amiamo che a volte finiamo per far loro del male”, è l’agghiacciante confessione che Blake (come l’autore de Il matrimonio tra il cielo e l’inferno) farà alla figlioletta Ginger. E vale probabilmente come scusante per il padre di Blake, che quando era bambino lui lo portava nella natura selvaggia per cacciare e imparare a sopravvivere (l’Oregon è quello Stato, del resto, dove è nato il movimento "Greater Idaho").

Nella cornice ideologica di Wolf Man (stacco non casuale) va anche soppesato il conflitto aperto tra il selvaggio Northwest e l’evoluta, emancipata California. Quando Blake, scrittore disoccupato a San Francisco e papà a tempo pieno mentre la moglie Charlotte è dedita soprattutto alla carriera giornalistica, decide che è il momento di ritrovare sé stesso, trascinerà la sua famiglia a suo dire ammaccata (ma quello in crisi è lui) nello scenario mozzafiato e non addomesticato del primo. È lì che l’educazione alla mascolinità del padre si era interrotta.

Christopher Abbott as Blake in Wolf Man, directed by Leigh Whannell. © 2025 Universal Studios. All Rights Reserved.
Christopher Abbott as Blake in Wolf Man, directed by Leigh Whannell. © 2025 Universal Studios. All Rights Reserved.
Christopher Abbott as Blake in Wolf Man, directed by Leigh Whannell.

Quella brutta espressione della semiotica che risponde al nome di “dispositivo testuale”, si dispiega qui in simbolo e potenza senza smarrire un più epidermico e spettacolare engagement. Direi anzi che la vera qualità del film risiede nella regia ancora una volta seria, consapevole e astuta di Whannell, che quasi azzera lo jumpscare per costruire un racconto di crescente tensione, dove i sintomi della violenza sono più forti e disturbanti della violenza stessa. Una strategia della dilazione che si fa letteralmente corpo in mutazione, lenta e mai risolutiva.

L’espediente della metamorfosi “centellinata” consente inoltre a Whannell e ai suoi collaboratori di fare un bel lavoro sul suono e di infondere movimento sensoriale a una messa in scena altrimenti troppo statica, congelata nelle sue opzioni figurative e nelle sue opposizioni testuali. Ma le geometrie visivo-concettuali, le epanalessi disseminate lungo il percorso rimangono la fissazione dell’autore. L’altra faccia degli ordini da buttare giù e rifare.

La vera debolezza del film, dispiace dirlo, riguarda la scelta degli attori. Non tanto Christopher Abbott, che ha una sua irrequietezza naturale. Le perplessità riguardano Julia Garner, scelta da Whannell per raccogliere il testimone di Elisabeth Moss come l’Artemisia metropolitana incaricata di salvare la società nell’unico modo apparentemente possibile, ovvero eliminando il dominus maschile. La Garner, che era stata l’autentico profumo selvatico di Ozark (la serie), sembra un po’ spaesata. Tanto nei panni dell’hipster californiana che in quelli della Sarah Connor riformata.