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Winter Brothers
Il pubblico italiano delle sale d’essai ha conosciuto l’islandese Hlynur Pálmason (classe 1984, si è formato e laureato in Danimarca) con il suo terzo film, il bressoniano Godland – Nella terra di Dio, presentato a Cannes nel 2022 nella sezione Un certain Regard ed evidentemente un sontuoso punto d’arrivo per padronanza dei mezzi e afflato espressivo. Prima del Covid, il Festival di Torino lo incoronò miglior film del concorso con l’opera seconda, A White White Day, già passato alla Semaine della Critique sulla Croisette.
Con un’operazione un po’ rétro, Trent Film completa la distribuzione italiana dei lavori di Pálmason e recupera il suo esordio, Winter Brothers, premiato al Festival di Locarno del 2017 con il Pardo per la miglior interpretazione maschile ad Elliott Crosset Hove (feticcio dell’autore, è il prete di Godland) e subito vincitore di ben nove premi Robert, massimo riconoscimento cinematografico danese. Approdo nel lungometraggio dopo tre corti (En dag eller to, En maler, Seven Boats), Winter Brothers è già la summa di una visione radicale del fare-cinema, in cui la forma, tanto sontuosa quanto essenziale nel suo essere suggestiva, è complementare a una narrazione che partendo dall’archetipo si affranca dalle convenzioni.
Pochi come Pálmason sanno raccontare – e problematizzare – la relazione tra uomo e natura, esaltando, nell’inverno di uno scontento collettivo oltreché personale, l’ostilità di uno spazio che si ribella congelando lo spirito (e le barbe). Lo fa chiudendosi in un aspect ratio capace di indicare ora il soffocamento ora lo smarrimento, scelta d’auteur perché politica, con un lavoro sulla pellicola che occhieggia matericamente al 35 mm quasi a offrire la suggestione che si tratti di un reperto fuori dal tempo, di un frammento estrapolato dalle asperità di un luogo di cui Pálmason coglie i silenzi come i rumori, il vento e le macchine che coprono le parole ma non i loro effetti.
Un lavoro visivo e sonoro al servizio di uno schema antico, sullo sfondo di una cava di gesso che si impone non tanto nei termini di un non-luogo quanto quale teatro della crudeltà in cui si riverbera uno schema antico. Quello del conflitto tra due fratelli, entrambi impegnati nella cava: Emil, il minore, è un alienato incapace di relazionarsi con i colleghi, che lo considerano (non a torto) uno strano disadattato, se non per vendere loro un liquoraccio di contrabbando; Johan, il maggiore, col suo temperamento più risoluto, sembra essere un po’ il simbolo di una comunità che non ha alcun interesse a capire il paesaggio emotivo di Emil.
Grazie alla complessa e stratificata interpretazione di Crossot Hove, Emil emerge in tutto il suo disagio, tra il bullismo subito dagli altri uomini e l’amore impossibile per la vicina di casa, il sospetto che abbia provocato una tragedia e l’incapacità di tollerare il dolore, la consuetudine all’umiliazione e il disperato desiderio di sentirsi amato.
Winter Brothers è soprattutto lo studio di un personaggio all’interno di uno spazio che da una parte lo rappresenta allegoricamente e dall’altra lo respinge quale rifiuto e ingombro. E se è vero che talvolta lo sguardo di Pálmason possa quasi sconfinare in una sorta di compiacimento estetico, è altrettanto vero che già da questa opera prima il suo cinema si rivela così minerale, dissonante, sorprendente da apparire anzitutto come un’esperienza fisica.