Iran. Anni novanta. Adeh è un arido villaggio tutto polveri e fossati a cinquanta minuti da Teheran. I piccoli profughi afgani che vi vivono non vanno a scuola: per pochi spiccioli devono setacciare le discariche a caccia di ferraglie. Il loro padrone è Naser, ex attore di fama internazionale, che ora vive, in incognito, tra i rifiuti. Lo aiuta Saber, altro cinefilo sotto mentite spoglie. Ma il protagonista della storia è Yahya, nove anni: di notte manda giù come cioccolatini i film che gli allunga di soppiatto Saber, al mattino ara le immondizie per sostenere la madre vedova. Ad accompagnarlo nelle mille scorribande c’è l’amica Leyla.

Un giorno i due piccoli, caracollando tra le pianure cotte dal sole, in una crasi di piani temporali, trovano la statuetta più ambita da chi fa cinema: il premio Oscar che fu nel 2017 di Farahadi (Il cliente), perso per strada da un messo postale malandrino. I due bambini non sanno a chi appartiene, ma intuiscono che la magica “bambola” d’oro vale un patrimonio. Così la lucidano, la nascondono, la proteggono, fin quando si rifà vivo il postino, disperato e a rischio processo, sguinzagliando la polizia per rintracciarla. 

Sul realismo sociale tipico del cinema iraniano, Nazar trasfonde l’autobiografia nei toni tipici della fiaba: il bambino, predestinato, venuto dal nulla, l’oggetto magico che diventa centrale e segna il suo destino, l’aiutante e gli oppositori, il viaggio lontano dal borgo per affermarsi che porta il lieto fine (confermato dalla biografia del regista, ma sospeso dall’attualità politica dell’Iran).

Ma la storia, prigioniera della sua vena devozionale e citazionistica (Rossellini, Bergman, Lynch, Kiarostami vengono fuori da tutte le parti), è più importante per il suo valore documentario che artistico. Il formalista Nazar ricalca la solita, stantia riproposizione dello schema biografico da Nuovo Cinema Paradiso – il cinema come sogno, come evasione per un giovane cinephile in mezzo a una vita avara di leggerezze-, ma Winners è un fedele, a tratti angosciante, spaccato di un Iran a due velocità, fratturato in due emisferi sociali che non comunicano.

Da una parte, lontana, inconoscibile, irraggiungibile la capitale, Teheran, il tempio del cinema che guarda a Occidente e si definisce in funzione di quel mondo; dall’altra un mondo rinchiuso in sé stesso, rurale, folkloristico che accoglie popolazioni in fuga, ma rimane ben al di là della legalità, condannandosi alla miseria e all’irrilevanza. Qui, dove cresce Yahya, il cinema è semisconosciuto, bandito, nascosto; lo sfruttamento minorile è non solo incoraggiato dalle famiglie, ma necessario alla loro sopravvivenza.

Cos’, la parabola del giovane cinemaniaco assume rilevanza nella misura indirettamente contiene un portato di critica sociale. Perché ci dice molto dell’Iran oggi (e di ieri), dove la clandestinità è elevata a legge di sopravvivenza, dove il cinema è una passione tanto divorante quanto contrastata: chi ha fatto l’attore ha rinnegato la professione, i film sono quasi solo americani o italiani e vengono spacciati in dvd, la famiglia lo bandisce (la madre non è per niente contenta che il piccolo Yahya passi la notte davanti allo schermo), il regime, poi, impedisce ai registi di fare il proprio lavoro, proprio come accade a Jafar Panahi, ritratto in un cameo affettuoso sul finale che ha il sapore dell’investitura.

Ne esce fuori un affresco sentito ma derivativo, dove il tono fiabesco prova ad annacquare, senza riuscirci le inquietudini attuali di un Paese in rivolta, smembrato, ancora lontano da una pacificazione.