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Parte forte questo Willow, trittico di storie dirette da Milcho Manchevski, con un racconto bruciante e antico abbastanza da elevarsi a eziologia. L’origine di un male dalle sfumature marcatamente mistiche si oppone al desiderio di maternità di una coppia vissuta (forse) molti anni fa.
La collocazione temporale non è precisa, né vuole esserlo, e da quel primo racconto ne discendono altri due, ben più vicini al presente e vicinissimi tra loro, di poco non contemporanei e riguardanti due sorelle.
Quello che di fatto è un film composto da tre cortometraggi dipinge, però, con poche scene per sequenza, un universo abbastanza coerente in cui muovere i propri personaggi. La prova recitativa è ottima, da parte dell’intero cast, sebbene la struttura sia sbilanciata in favore del suo primo e fondamentale segmento originario. In quel frangente, la narrazione è più potente e non trova eco all’altezza nello sviluppo, né tantomeno nella conclusione.
Per assurdo, fosse stato composto al contrario, Willow avrebbe convinto di più, con due racconti simbolici e coi piedi per terra a fare da colonne e un terzo pilastro, sospinto in alto, a spiegare la componente super-naturale. Una strada tracciata dinanzi, da percorrere a piacimento, fino all’origine misteriosa di maternità e, all’opposto, della sua frustrante negazione.
Resta un buon film triangolare, non orientato ma orientabile, sorretto da regia distinta e interpretazioni profonde. Tre angoli di maternità, ottenuta o meno attraverso il dolore.