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When We Were Sisters
Dopo Blue My Mind, un coming of age che svicolava nel fantastico, e varie esperienze televisive (ha diretto episodi di serie come Servant e Killing Eve), la svizzera Lisa Brühlmann torna al lungometraggio proponendo un altro racconto di formazione, collocato in una stagione – l’estate – che per la sua natura effimera si presta facilmente a farsi scenario di percorsi di crescita, nuovi approdi, rivelazioni inattese.
Nel titolo c’è già la chiave di lettura: When We Were Sisters (in concorso ad Alice nella Città) c’è la ricerca del tempo perduto, c’è il ricordo per un momento olimpico e irripetibile, c’è la scoperta di un legame inatteso su cui si edifica quella memoria che permette di immaginare un futuro migliore. E proprio in questo sentimento sospeso tra la dolcezza per una vita possibile e il rimpianto per quella che è stata solo una parentesi.
Come altri registi della sua generazione, la poco più che quarantenne Brühlmann ci catapulta in un passato recente già filtrato dalla nostalgia: ma il 1996, al di là di alcuni feticci come le audiocassette e mode del momento che si riconoscono nelle acconciature e nei vestiti, è ricostruito in maniera molto fluida, senza scadere nel posticcio, e forse è anche per come il film si sviluppi soprattutto in esterni. Che è una località di villeggiatura greca, lontana dall’overtourism ma in cui il resort vista mare è ben distinto dalle catapecchie dei piccoli spacciatori, dalle lande desolate con bancarelle occasionali, dai cortili degradati pieni di cani randagi (che aprono e, attenzione, chiudono il film).
Al centro di When We Were Sisters c’è Valeska, una quindicenne turbolenta (si è fatta da sola, sulla mano, il “tatuaggio dei carcerati”, cerca dell’erba in giro e telefona a un ragazzo da cui, forse, è stata allontanata), in vacanza con la madre, fragile e oscillante, e il suo nuovo compagno, gentile e alcolizzato, con figlia a seguito, una quattordicenne solitaria legatissima al cagnolino. Dapprima distanti se non proprio ostili, imparano a conoscersi e a riconoscersi, si fanno forza l’un l’altra e scoprono una sorellanza inaspettata. Ma l’illusione è dietro l’angolo e il presente si trasfigurerà nelle fotografie da conservare nel cuore.
Brühlmann (che si ritaglia anche il ruolo difficile della madre, con un finale davvero pesante) disegna un coming of age classico senza essere convenzionale, luminoso eppure inquieto, limpido ma non privo di quell’angoscia che solo l’adolescenza sa trasmettere. Una storia di emancipazione e guarigione, in cui nella scoperta dell’altro (anzi, dell’altra) troviamo la necessità della cura, la scommessa della fiducia, il bisogno del dialogo.