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Welcome Home
Lila (Manah Depaw) ritorna nella sua città, Bruxelles, dopo alcuni mesi trascorsi all'estero e incontra tre uomini. Sull'autobus che dall'aeroporto è diretto in città conosce un iraniano (Nader Farman) che aveva studiato nella capitale belga quarant'anni prima; a casa ritrova l'uomo dal quale si era separata temporaneamente (Felipe Mafasoli); per strada in bicicletta viene investita da un'auto che ha a bordo un giovane funzionario delle istituzioni europee (Kurt Vandendriessche).
L'esordio alla regia del belga Tom Heene (già collaboratore di Lars von Trier) è uno sguardo sul dopo-globalizzazione. Non è un'istantanea sull'apocalisse ma poco ci manca, perché Welcome Home tradisce da subito un atteggiamento negativo - e in effetti assai poco originale - sugli scenari aperti dal mondo senza frontiere e senza più patrie/case.
Passando senza soluzione di continuità dallo spazio sociale a quello interiore, dal passato al presente, Henne (autore anche della sceneggiatura) cerca di costruire un discorso che più che affidarsi alla ferrea logica del racconto vuole intercettare risonanze emotive tra individui e ambienti, entrambi attraversati da mutamenti e in cerca di nuove definizioni e forme: Bruxelles si rivela semplicemente un territorio altro, ignoto, irriconoscibile, tanto quanto lo è la nuova identità della protagonista, reduce da un'esperienza da globetrotter e improvvisamente aliena al fidanzato. Che questa trasformazione senza progetto sia destinata (letteralmente) a perire dimostra solo quanto siano ancora profonde le resistenze del Vecchio Continente dinnanzi al mondialismo che avanza. In ciò rivelando un ritardo, l'incapacità di elaborare schemi culturali nuovi che non siano quelli del rifiuto, della nevrosi e della crisi.
Insomma di inedito Welcome Home ha solo il nome del regista, perché il resto invece va iscritto mestamente all'anagrafe del passato. Anche stilisticamente, con il film impantanto nella ricerca di inquadrature metafisiche e insopportabili rotture cronologiche. La tecnica c'è (ottima la direzione degli attori), ma Heene si atteggia troppo a un Antonioni postmoderno. Senza essere perdipiù né l'uno né l'altro.