PHOTO
Come si genera un mostro? E' la domanda che attraversa dall'inizio alla fine We Need To Talk About Kevin di Lynne Ramsay, ed è l'interrogativo che non dà pace alla povera Eva, madre che ha messa da parte ambizioni di carriera alla nascita del primo figlio, Kevin. Neonato che non smette mai di piangere, bambino ostile, adolescente impenetrabile, infine mostro. Di quelli che una mattina si alzano e compiono un massacro a scuola senza nessuna ragione.
Ci prova Eva a ripercorrere a ritroso un doloroso, implacabile, cammino di preparazione all'eccidio. Cerca nei singoli episodi che hanno segnato il suo fallimento di madre; scava dentro la meccanica inceppata di una relazione che non sa, non può essere. Una traccia, un segnale, un errore che giustifichi l'imponderabile. Sprofonda, e noi con lei, dentro l'abisso dell'anima - la propria e quella della sua creatura - per toccare le radici di un Male che si propaga nonostante l'ostinazione di un amore necessario, naturale, pure questo illogico.
Non c'è - non ci può essere - soluzione bisogna prenderne atto: "Qual è il punto?" chiede la madre al figlio. "Il punto è che non c'è il punto", risponde lui con glaciale, apodittica, chiarezza. Non lo aveva già stabilito del resto - con più radicalità, perché anaffettivo - Gus Van Sant radiografando il cuore nero degli adolescenti di Elephant? La differenza qui la fa la volontà di capire a tutti i costi, tentativo di scrivere almeno una parola (di senso, quindi di speranza) sul diaro che qualcuno ha voluto indelebilmente bianco. Pardon, rosso: perché tutto è letteralmente sommerso in un mare di sangue - annunciato già dalla bellissima sequenza d'apertura (una plongèe verticale riprende una guerra con la salsa di pomodoro) e poi evocato più e più volte (dalla marmellata di ciliege spiaccicata sul tavolo alla vernice che imbratta il muro di casa).
La Ramsey ha girato un dramma familiare che è anche un horror diabolico (Il presagio?), intimista e mai sociologico, sovraccarico di premonizioni e di simboli. C'è persino troppo stile, quasi un'ombra di compiacimento nella confezione. Ma più che un limite è un eccesso voluto, cercato: trasmette allo spettatore una sensazione di disagio, di sinistro spaesamento. Da una messa in scena così soffocata e soffocante non si esce, tutt'al più si prende fiato, e a questo servono gli intermezzi musicali, talmente stonati rispetto alla drammaticità della scena da provocare un sorriso. E a rendere ogni cosa autentica ci pensano gli interpreti: Tilda Swinton, così violentemente intensa e martoriata da farci male; John C. Reilly, la spalla perfetta; Ezra Miller, inquietante oltre ogni immaginazione. Una maschera che s'incrina solo nel finale quando, dopo due anni di silenzio, risponderà un'altra volta alla madre: "Perché l'ho fatto? Prima lo sapevo, ma ora non ne sono più tanto sicuro". Come dire: se anche il Male fa fatica a comprendere se stesso, forse allora può essere perdonato. E' l'ultima provocazione lanciata dal film. E il concorso si scuote.