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C’è la colonna sonora, pervasiva ma non gratuita, di Trent Reznor e Atticus Ross, ci sono simmetrie con il post-pop di Harmony Korine e la post-negritudine di Barry Jenkins, il cui Moonlight non è stato girato troppo lontano. Ma c’è anche, pur nell’alveo poetico-estetico (e ideologico) della A24, se non l’originalità, il gusto e la sostanza di Trey Edward Shults, che ha appena compiuto 31 anni e con Waves firma l’opera terza.
Da bianco inquadra una famiglia afroamericana, e la natura sussultoria e ondulatoria del ritratto mobile, mutevole e work in progress potrebbe ambire a due altri titoli, quello originale e quello italiano del classico di Lars von Trier del 1996: Breaking the Waves e Le onde del destino.
I protagonisti, a fasi alterne, sono quattro: il lottatore Tyler (Kelvin Harrison Jr.), che è bello, poliedrico (non solo sport: suona il piano) e ha una bella ragazza, Alexis (Alexa Demie); il pater familias, pastore e costruttore, Ronald (Sterling K. Brown), che ha tanti muscoli, qualche ruvidezza ma il cuore buono; l’altra figlia, minore, timida e profonda, Emily (Taylor Russell), cui sarà dedicato il “secondo tempo”; la matrigna (Renée Elise Goldsberry), che è dolce ma forse non assertiva.
A congiungere questi vertici sono le geometrie variabili dell’affetto e del caso, installati in un benessere che non significa necessariamente felicità, in un amore che non salva, in un attimo che può perdere tutto. Ovvio, siamo in America, e alcool e droghe si prendono colpe, e scorciatoie, che non hanno, ma Waves si prende anche delle belle libertà, nell’aspect ratio ballerina, nei close-up e nei viraggi fluo, nel martello di vuoto pneumatico che è lo score.
Troppo lungo (135’)? Sì. Qui e là involuto? Sì. A tratti più confuso che affrancato? Sì. Nondimeno, Waves dice qualcosa, e qualcosa di buono, sul vivere e sopravvivere oggi in formato famiglia e ricadute individuali: i personaggi non sono pupazzi, il sentire non è sordo. Metteteci i lamantini, ed è fatta. Ah, ma che Trey Edward Shults, che monta a quattr’occhi con Isaac Hagy, e il dop Drew Daniels girano da Dio si può dire, o nel pauperismo estetico vigente pare brutto?