Il deserto dei barbari. È un titolo di sicuro facile per sintetizzare il nuovo film di Ciro Guerra, il primo fuori dalle natie terre colombiane, ma Waiting for the Barbarians è di sicuro un adattamento ai nostri tempi politici e morali del romanzo di Dino Buzzati e dell’omonimo film di Valerio Zurlini, ancora più inquietante se si pensa che il romanzo di J. M. Coetzee - anche sceneggiatore - risale al 1980.

La Fortezza Bastiani del caso è l’avamposto di un immaginario paese al confine con l’estremo Oriente, confine oltre il quale il potere vuole ci siano dei barbari pronti ad attaccare.

Il protagonista è un magistrato che amministra la legge con pacatezza, consapevole che questo nemico forse non esiste; quando però l’esercito prende in mano la situazione e impone agli abitanti il pugno di ferro la pacatezza dell’uomo comincia a cedere.

Guerra accentua il lato metaforico del romanzo per comporre un quieto ma incisivo pamphlet sul senso del razzismo contemporaneo e i rigurgiti colonialisti della nostra società.

 

È soprattutto interessante e originale il lavoro di descrizione del protagonista: un baluardo di ragionevolezza contro la scomposta violenza del potere, contro il bisogno disperato di ogni governo - qui ritratto nel suo braccio armato - di costruirsi un nemico ad hoc, costruendo attorno a esso una propaganda, contro la voglia di costruire sempre nuovi muri e nuovi confini.

Eppure, il magistrato dello splendido Mark Rylance (da applausi nella sequenza in cui beffa il comandante Johnny Depp fingendo di leggere dei reperti che colleziona) fa parte dello stesso sistema di dominio razziale, seppure ne mostra il lato “buono”: tutta l’emozionante parte centrale, che descrive il rapporto con la barbara sfregiata dagli interrogatori dell’esercito, sancisce la distanza tra i mondi che collidono, mette alla berlina il modo in cui funziona il senso di colpa, basato sul paternalismo peloso anziché sulla comprensione.

Più ieratico rispetto al testo scritto, il film può lasciare perplessi proprio per le sue scelte di ritmo, per il suo andamento cadenzato e anche per qualche tocco più goffo con cui si evidenza una difficoltà di Guerra a interagire con una produzione più grande, con i modi e le strutture del cinema d’autore tradizionale.

Però, nell’uso di un set metafisico, nella capacità di mettere in scena i gesti del suo protagonista e di dar loro un senso, nel modo di mettere in scena gli spazi e i luoghi, Waiting for the Barbarians resta un film affascinante e a suo modo compiuto, più intimo e personale di ciò che appare al primo sguardo.