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Che il noir scandinavo, nelle sue infinite declinazioni letterarie, seriali e cinematografiche, spopoli è cosa risaputa, ma quello più settentrionale, quello islandese com’è?
A giudicare dal prototipo in Concorso al 36° Torino Film festival, si recita, e ancor prima si scrive e si dirige, a soggetto, licenziando una copia conforme, quasi una summa dei topoi scandinavi. Vale a dire, ci si mette in scia, in buon ordine, nel disvelare la ruggine dietro il sorriso, il marcio dietro il decoro, il macilento dietro la società modello: Islanda infelix, che per dirne una accoglie i profughi – serbi – e quei pochi che ce la fanno, ecco, ce la fanno davvero?
E’ Vargur, ovvero Vultures (“Avvoltoi”), esordio al lungometraggio dell’islandese classe 1978 Börkur Sigthorsson, cresciuto a pane e videoclip.
Due fratelli: Erik (Gísli Örn Garðarsson), avvocato rampante, e Atli (Baltasar Breki Samper), spacciatore, si uniscono nella missione di far entrare in patria un chilo e mezzo di cocaina, suddivisa in ovuli ingurgitati dal mulo Sofia (Anna Próchniak), una ragazza polacca. Sulle loro tracce, la poliziotta Lena (Marijana Jankovic), e il cerchio lentamente e violentemente si stringe…
Se Erik, e il rispettivo attore, è il personaggio più interessante, e non manchi una pregevole crudezza nel ritrarre ovuli, vomito e altri fluidi corporali, Vultures non brilla di originalità alcuna, anzi, denuncia plateali ingenuità nel racconto e già nella storia: basti pensare al maldestro passo a due aeroportuale di Atli e Sofia.
Tanto rumore per nulla, insomma, e il twist finale non scioglie la sensazione: che si sia scoperta l’acqua calda, nel paese dei geyser.