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Mother… Mother… Mother… All’n-esima volta che Cate Blanchett, la cui accorata voiceover inanella una teoria di cosmiche banalità, proferisce quel “Mother”, partiresti lancia in resta contro lo schermo, IMAX per giunta, ma non si può, non si deve: Voyage of Time è un film, e i film si affrontano con cappa e penna. Voyage of Time è l’ultimo lavoro di Terrence Malick, e il suo primo documentario: sinfonia universale, Koyaanisqatsi anema e core, Spira Dinosauris, fate vobis.
Merita rispetto, e anche sincerità: non è un grande film, non per quel che fa vedere – si può forse sparare contro quella Croce Rossa dell’immagine naturalistica che è il National Geographic, tra i player di questa partita? – ma per come lo fa vedere, ovvero senza un guadagno ermeneutico superiore al fatto che siamo stati creati, c’è un creatore e la Storia, e Preistoria, è piantata per aria, per mare, ma ha anche una Terra sotto i piedi.
Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo e perché, Malick se lo chiede, e risponde in audiovisivo collegando pesci e vulcani, fiumi e sublime, Sturm e droga visuale, Quark e New Age, complici gli effetti speciali supervisionati da Dan Glass. Insomma, l’albero della vita abita ancora qui, ma è ridotto a bonsai: se in quel film Tree of Life, inopinatamente Palma d’Oro a Cannes 2011, Malick tentava ancora di trasformare il suo anelito metafisico in narrazione, e non mera illustrazione, qui fa partire un solo a tratti mesmerizzante Power Point è più non dimandare.
Del resto, ci pensa già Cate Blanchett a chiedere e richiedere, stalkerando il povero e non meglio precisato “Life Giver” per 90 minuti (c’è anche una versione di 130’, pare narrata dal produttore Brad Pitt…). In realtà, ci sono anche altre domande, per esempio perché gli uomini primitivi, peraltro glabri, non abbiano il pene: il modello è il Ken di Barbie, Mr. Malick?
Ma veniamo al problema principe di questo lungamente ideato, pianificato e costruito Voyage of Time: può un film in lode della Terra e dell’Universo tutto essere un sistema chiuso dal punto di vista della posizione e interazione spettatoriale? Malick squaderna tutto, dice per filo e per segno, tallona dinosauri e fiere, contempla fauna, flora ed elementi, lasciando all’uomo qui e ora inconsulte e didascaliche apparizioni in riprese all over the world effettuate, parrebbe, col telefonino. Non meritiamo di più, né sullo schermo né in platea. E il perché è presto detto: Malick se la canta e se la suona, al suo ritmo. Pardon, al suo Time.