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Volver
I fantasmi non piangono, sostiene Carmen Maura nel bellissimo finale del film di Pedro Almodóvar. I fantasmi non possono versare lacrime. Devono abitare nelle antiche case e riposarsi nei patii. Assistono chi si appresta a superare la soglia della vita per lasciarla definitivamente. Accudiscono i morenti. Accompagnano i vivi, li amano, li seguono discretamente. I fantasmi conoscono l'arte misteriosa di trattenere il tempo, di fermarlo, di fissare quei momenti, per lo più dolorosi, nei quali le persone e i personaggi hanno cominciato a diventare quello che poi saranno per il resto dei propri giorni. Tutto su mia madre è un film sull'assenza di un figlio, sul vuoto assoluto e incolmabile di un lutto che non si può elaborare, su un amore materno che non ha neanche una presenza fantasmatica alla quale aggrapparsi, una presenza impalbabile da abbracciare e da accarezzare con affetto. Volver è un film su una madre (in realtà più d'una perché anche la madre di Augustina è svanita nel nulla da anni) creduta morta, "scomparsa", ormai lontana e presente. Nell'odore che ristagna nelle stanze e nelle memorie dolenti della intraprendente e corrucciata Raimunda (Penélope Cruz). Nell'incertezza dei ricordi. Il titolo attesta che il ritorno è inevitabile, è inscritto nel destino dell'essere umano (polvere che torna alla polvere). Tornare alla propria infanzia ferita o felice, al paese d'origine, La Mancha, battuto e spazzato dal solano, un vento incessante che rende folli o stordisce, e laddove gli incendi devastano la regione e la vita degli abitanti: in uno di quegli incendi il padre e la madre di Raimunda e Sole (Lola Dueñas) sono morti abbracciati e in amore. Tornare al passato che, ostinato, irriducibile, arrogante, pietoso, non passa mai come ne La mala educación o in Tacchi a spillo. Tornare per sopravvivere, per resistere al dolore di un incesto subito da Raimunda, all'omicidio commesso dalla figlia (Yohana Cobo) della protagonista per difendersi, dal senso di colpa della nonna–fantasma per non aver capito - come intuisce con amarezza Anna Magnani nella breve scena di Bellissima trasmesso dalla tv - quale tragedia domestica avesse vissuto la figlia. Ci sono molti altri ritorni, privati e cinematografici, che riguardano Pedro Almodóvar. I suoi film non si pongono limiti. Le emozioni forti e laceranti sono controllate da uno stile sobrio, asciutto, suadente, depurato. I materiali narrativi palpitanti sono svelati da una scrittura e da una messa in scena che, in questo caso, ha le cadenze di una commedia drammatica. La furia e la provocazione barocca, il gioco paradossale e postmoderno del melodramma sono stati smussati e accantonati. Una trama che i reality-show o i talk-show morbosi (un modello di tv rifiutata dal regista in modo esplicito in una scena e in alcune spiritose e caustiche battute dei personaggi) trasformerebbero in volgarità dei sentimenti, in avvilimento delle umane sofferenze, in discount dell'emotività, nelle mani di Almodóvar assume la dimensione di un cinema che è "esemplare", una qualità intrinseca dell'estetica classica. Già nel magnifico Parla con lei, il regista si muoveva nella zona opaca, nello scintillio che separa la vita dalla morte, lungo la linea di demarcazione tra la consapevolezza di esserci e l'assenza di questa consapevolezza. Volver si apre in un cimitero, con l'operoso fervore intorno alle tombe dei propri cari. I vivi che si prendono cura di chi ci ha lasciato. Il confine da valicare è lo stesso di Parla con lei: dialogare con chi non c'è più, con se stessi, con la propria storia, con le proprie cadute. Come i fantasmi, le meravigliose donne almodóvariane (le interpretazioni sono eccezionali) non vogliono separarsi dai luoghi in cui sono state felici e infelici, dai luoghi in cui tutto è nato, dai luoghi in cui continueranno a tornare nei sogni, nei desideri, negli incubi. Stanno lì a guardare oltre lo scintillio. I fantasmi non hanno crisi di nervi e non piangono.