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Sidse Babett Knudsen in Vogter (Sons) di Gustav Möller
Eva è una secondina gentile e crede davvero che il carcere possa essere un luogo di riabilitazione. Con i detenuti ha un rapporto costruttivo: dà ripetizioni di matematica, fa yoga, chiede com’è andata la notte, controlla con sincera premura. Vogter – che in danese significa guardia – stringe l’inquadratura proprio su lei, quasi fosse un character study: fa parte di un sistema, il carcere, e ha fiducia nella sua missione, perciò la vediamo completamente calata nell’ambiente, tant’è che è anche cromaticamente intonata ai colori freddi di quello spazio.
Ma Vogter, opera seconda di Gustav Möller dopo il bel The Guilty – Il colpevole (il tema della responsabilità collettiva torna anche qui), in Concorso a Berlino 74, non è solo lo studio di un personaggio in relazione all’ambiente che abita (è come se non avesse una casa, come se quel mondo fosse tutto il suo mondo o quello che le resta). È una tragedia antiretorica che si fonda su elementi archetipici: la maternità negata, l’elaborazione di un trauma, l’espiazione impossibile, l’agnizione finale. Quando entra un carcere un ragazzo che ha qualcosa a che fare con il suo passato, Eva chiede di poter essere trasferita nel Centro Zero, il reparto di massima sicurezza in cui sono relegati i detenuti più pericolosi e violenti, compreso il nuovo arrivato, e in cui lavorano le guardie con meno pelo sullo stomaco (si allenano ogni giorno per fronteggiare alle intemperanze dei carcerati e ricorrono frequentemente a brutali misure di contenimento).
Non è un caso che il corridoio che collega il carcere “normale” a quello duro sembri una via verso l’inferno, con le sue tonalità accese e scarlatte (fotografia di Jasper J. Spanning): in quel blocco non c’è speranza, non c’è possibilità di redenzione, non c’è salvezza. Ma Eva non si è fatta trasferire solo per una battaglia idealista: c’è dell’altro, c’è qualcosa di indicibile, c’è la vita di chi resta.
Ancora una volta un film di Möller si tradisce nella traduzione: il titolo internazionale, Sons, figli maschi, dice già tutto. Come The Guilty, anche questo si regge su un’idea forte tanto aderente alla cultura nazionale quanto comprensibile a ogni latitudine, intrecciando la tensione palpitante del prison movie con un dilemma morale che non lascia scampo: il desiderio di vendetta può coincidere con il senso di giustizia?
Benché s’incagli un po’ nella seconda parte, Vogter è un film incessante (montaggio di Rasmus Stensgaard Madsen) che non si riduce a un teorema: le azioni, i gesti, gli sguardi costruiscono la relazione tra carceriera (la straordinaria Sidse Babett Knudsen) e prigioniero (Sebastian Bull) senza troppi schematismi, i momenti più forti (gli effetti delle torture psicologiche) evitano la pornografia del trauma, la claustrofobia si libera in uno straziante pre-finale en plein air che finisce per sottolineare ulteriormente un senso di chiusura opprimente, forse necessario per potersi aprire alla possibilità di un futuro. Perché – ci risiamo – i singoli non possono farcela da soli.