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Vincent deve morire
Basta un incrocio di sguardi tra Vincent e qualsiasi altro essere umano affinché quest’ultimo si scagli con cieca violenza contro di lui. Nessuna parola, solo irrazionale ferocia e spietata aggressività. Le pupille si dilatano mal celando l’incontrollabile desiderio di vederlo soffrire. Prima assalito con il portatile da un giovane stagista al quale rivolge una banale e seppur irritante battuta e dopo, a una manciata di ore di distanza, infilzato dal collega con la penna divenuta un letale stiletto. Reazioni strane, certo, apparentemente regolate dal convenzionale rapporto causa-effetto, dall’imperante logoramento giornaliero o da altre cause legate alla personalità della vittima.
Tutto lascia presupporre che Vincent nasconda un’immorale e riprovevole doppia vita: mite ed ordinario grafico pubblicitario di giorno, criminoso malfattore da punire di notte. Però così non è e se le prime violenze avvengono nello spazio conosciuto altre, molto più inquietanti, irrompono gradualmente in tutto ciò che lo circonda scatenando un vortice senza esclusione di colpi. L’unica soluzione? l’isolamento forzato e il seguire il prontuario dispensato da una comunità virtuale di esiliati e reclusi con la stessa “malattia". L’auto detenzione, tra l’allenarsi goffamente con un taser elettronico e il fuggire da chiunque, sarà costellata da significativi incontri, uno fra tutti, ai quali farà da sfondo una escalation di furore collettivo dove saranno gli uni contro gli altri.
Questo è il preambolo da cui si muove Vincent deve morire, l’interessante esordio alla regia di Stéphan Castang, presentato alla Semaine de la Critique di Cannes 2023. Con capace padronanza, l’opera riesce da subito a snodarsi nell’accostamento di umorismo corrosivo tipico della commedia nera e la brutalità urbana nettamente ingiustificata dell’horror europeo d’oltralpe. Il regista con intelligenza impugna le caratteristiche dei generi di riferimento omaggiando un certo tipo di cinema d’assedio (Carpenter su tutti, è evidente), liberandosi dalle ovvietà della categorizzazione e traslando all’oggi la già annunciata minaccia dell’avvento di una società violenta e i traumi della contemporaneità.
A venire in superficie è lo stato dell’arte della nostra epoca, prendendo in considerazione i rapporti umani di qualsivoglia tipologia e la loro conseguente deriva. Il pensiero, infatti, non può non convergere nella percezione che ciò che si sta guardando sia un’estremizzata rappresentazione del passato recente e del presente ancora da scrivere. La mutazione dei canoni della socialità dell’era post pandemica e i crescenti episodi di arbitraria crudeltà nei confronti del prossimo hanno reso plausibile l’abbrutimento dell’umanità nel suo approcciarsi all’altro.
Chiaramente, per coerenza narrativa, tutto viene portato ad un limite distopico e di sicuro il semplice guardarsi non scatenerà un’ondata di acuta di trasgressione, ma lo spuntare fuori di una prospettiva che possa essere ammissibile lo rende oltremodo agghiacciante. La persecuzione dalla quale Vincent cerca di scappare è la medesima che tenta di contaminare i codici della nostra quotidianità, del vivere e del reagire, tramutandosi nell’impossibilità di sopravvivere nell’attuale realtà così come siamo diventati. Solo tramite l’esperienza del catastrofico e il percepire finalmente l’altro, si potrà perdurare. Castang e lo sceneggiatore Mathieu Naert congegnano quindi un testo visivo ispirato ed intrigante; eppure nell’inseguire il messaggio, desiderosi di trasmettere l’allegoria del contenuto, trascurano alcuni passaggi dell’intreccio lasciandoli indefiniti. Peccato.