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L’attrice, il figlio dell’attrice, l’infermiera e il barelliere. Quattro destini che si uniscono, o meglio si scontrano, a Montreal, più precisamente all’ospedale Ville-Marie. Ville-Marie è il titolo dell’opera seconda del canadese Guy Edoin, in cartellone alla decima Festa del Cinema di Roma: una sorta di Crash in salsa quebecoise, ma ad alto, pure troppo, voltaggio melodrammatico.
Perché Monica Bellucci, nei panni della diva europea in trasferta Oltreoceano, abbia accettato la parte rimane un mistero, tant’è: il film si accartoccia progressivamente, preda di colpi di scena telefonatissimi (il figlio…) e dialoghi da soap di quart’ordine, della serie “non siamo mai pronti”.
Soprattutto, non ce ne frega un granché di questi personaggi in cerca di se stessi e dei propri affetti: il figlio dell’attrice è nato dalla violenza, la madre ancora non gli ha detto chi sia il padre e, contrappasso, il film che sta girando forse spiega molto del perché; il barelliere soffre di disturbo post-traumatico da stress e non sa darsi una fuga, fuorché dall’accettazione dell’amore altrui; l’infermiera non sa prendersi cura del proprio figlio, dopo che un altro le è morto annegato; il figlio, omosessuale e da poco single, s’è ritrovato tra le braccia il neonato di una donna pronta a suicidarsi…
A raccogliere i cocci ci pensa il film o, meglio, tocca pensarci a noi, ma ne vale la pena? Infermiera e barelliere ancora ancora si salvano, ma il mélo borghese e metacinematografico di Monica e “famiglia” è da sala di rianimazione. Tranquilli, a Ville-Marie c'è posto.