Quattro storie, quattro volti, quattro sentimenti, quattro vite al limite, ma una sola via di fuga, la “roba”. La certezza di andare incontro all'autodistruzione, all'emarginazione, alla consapevolezza di perdere sé stessi e la propria dignità. Il 24enne regista Teo Takahashi dirige molto bene questo docufilm a Distribuzione Indipendente, Vietato morire, che racconta il difficile percorso, all'interno della comunità "Villa Maraini" (un centro di recupero per la tossicodipendenza) di quattro personaggi che cercano di riprendersi la propria vita affrontando l'insormontabile muro dell'abbandono sociale.
Tornano alla mente le parole di Ewan McGregor in Trainspotting (1996): “Ho scelto di non scegliere la vita, ho scelto qualcos'altro… Le ragioni? Non ci sono ragioni… Chi ha bisogno di ragioni quando ha l'eroina?”. Tutto dipende da lei. Senza di lei la vita non ha senso, e poi “il mondo è malato, sta morendo – afferma Patrick, uno dei protagonisti– e tutto deve finire. E quindi se devo morire, se devo aspettare la fine del mondo, la aspetto festeggiando con la “roba”. Voglio decidere io come morire, e voglio farlo con le mie mani”. La sofferenza, il sangue, l'amore, l'umanità e la passione che caratterizzano gli sguardi, i volti e i gesti sono reali, come gli sforzi e la tenacia dei medici, psicologi, psicoterapeuti  e operatori – ex tossicodipendenti – che continuano la loro lotta strada per strada, giorno dopo giorno. Vegliano sulle tragedie avendo come unica fioca speranza la consapevolezza di alleviare il dolore, sulla strada di un remoto futuro di redenzione. Lo stesso Fondatore di Villa Maraini, Massimo Barra, in conclusione lo dice: "Noi diamo compassione, ossia vogliamo patire insieme a loro, farci carico di una parte delle sofferenze di tutti quelli che entrano qua, solo questo possiamo fare".
Se la tematica non è purtroppo originale e la sceneggiatura elementare, Vietato morire ha personalità, ritmo musicale incalzante e capacità di emozionare, quando Mitia – un altro protagonista – trova il coraggio di suonare alla porta di casa e pronunciare parole represse per anni: “Zoe..sono papà”.