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Fabrizio Corona in Videocracy
"L'Italia non è più divisa tra destra e sinistra, ma tra chi è una celebrity televisiva e chi no".
Parola di Erik Gandini, il regista italiano trapiantato in Svezia che ha portato alla Mostra di Venezia l'attesissimo Videocracy, evento speciale in collaborazione tra Settimana della Critica e Giornate degli Autori, e ora in sala con Fandango.
Da Lele Mora a Fabrizio Corona passando per reality, tronisti, veline e sogni privati per il piccolo schermo pubblico, il documentario inquadra il "bestiario" televisivo italiano per rintracciare la genealogia del nostro sistema politico-mediatico, che da 30 anni ha un nome e un cognome: Silvio Berlusconi, "il Presidente - come lo definisce Gandini - prima della televisione, poi di tutto".
Prodotta dalla Atmo AB di Gandini e Tarik Saleh, in collaborazione con la Zentropa di Lars von Trier, Videocracy non è un documentario politico e militante, alla Michael Moore per intenderci, ma un lavoro emotivo, "ispirato dal cinema di Antonioni", che va oltre e "fuori tema" dalla tesi di fondo: l'immagine è (il) potere, soprattutto in Italia.
La patria del Presidente, dove tutto è concesso, anzi, dove tutto è normale: Mora ci presenta le proprie creature, tronisti palestrati nel dolce far niente della sua villa in Costa Azzurra, rimpiange che Berlusconi, ahinoi, non sia come Mussolini, e ci fa sentire canzoni fasciste dal suo telefonino, mentre Corona pontifica, sguinzaglia i suoi paparazzi dietro il vip di turno, fa ospitate in discoteca, in cui il vuoto e il nulla gli coprono il viso, e si mostra nudo e compiaciuto sotto la doccia.
L'unica speranza, quella del documentario, è che Corona, Mora e gli altri capiscano, un giorno, che la festa è finita, che, come dice il regista, "fun is not fun anymore".
Una constatazione di cui il filmaker, già noto per Gitmo co-diretto con Saleh e il doc-shock Surplus (Silver Wolf all'IDFA di Amsterdam), impregna pause e volti di Videocracy, creando lo straniamento necessario per accostarsi alla telecrazia, di cui ci mostra l'imperatore Silvio, i soldati Mora e Corona e i plebei, come il "Virgilio bergamasco", l'unico capace di unire alla voce e le movenze di Ricky Martin il fisico e le mosse di Jean Claude Van Damme, che ci accompagna nelle aspirazioni di chi celebrity televisiva non è, ma vorrebbe. Fortissimamente vorrebbe.
Fuori dalla scatola magica, tutto il resto è noia, almeno per le gerarchie dell'immagine al potere, ed è buffo, e inquietante, vedere come tutto sia partito - non solo secondo il regista - da piccole tv locali degli anni '70 che mandarono in onda i primi spogliarelli, casalinghi, tristi e in bianco e nero.
Anche il Presidente oggi è nudo, ma (quasi) nessuno se ne è accorto…
PS: Qualcuno vi dirà che Videocracy è cinema mediocre, se non banale. Avesse anche ragione, non avrebbe capito nulla. L'importante non è che cosa, e nemmeno come, ma dove: il documentario di Gandini ristabilisce il primato del cinema, uno spazio privilegiato, il buio in sala, in cui osservare per intero e per davvero quello che alla luce del sole, ovvero dei riflettori, abbiamo smesso di vedere. Ancora una volta, e lo straniamento "interno" ne è spia e sintomo, è il medium - il supporto, il contesto, la fruizione, l'ubi consistam - il messaggio. E la speranza: cinema kill the video star...