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Viaggio in Paradiso
Il pressbook di Viaggio in Paradiso ci mette fuori strada. Breve riferimento al plot - "E' stata una brutta giornata per Driver e la situazione non sembra migliorare. Ha appena fatto un grande colpo da milioni di dollari (...). La polizia di frontiera lo sta inseguendo a tutta velocità (...). Fermato dalle autorità messicane viene portato in una prigione infernale (...). Riuscirà a sopravvivere grazie all'aiuto di qualcuno che sa il fatto suo, un ragazzo di 10 anni (...) - e poi tre interi paginoni in A4 dedicati alla "peggiore prigione di tutto il Messico": El Pueblito. Gli autori si dilungano sulla genesi, lo sviluppo, la metamorfosi e il destino di questo famigerato istituto penitenziario fatto costruire (apprendiamo) nel '56 a Tijuana "per ospitare 2.000 prigionieri nel quadro di un nuovo esperimento correttivo" andato molto male. Seguono note di colore ("Intere famiglie vivevano dentro le mura della prigione, alcuni rimanendoci a tempo pieno mentre altri andavano e venivano a piacimento"), digressioni paesaggistiche ("una baraccopoli affollata con oltre 700 case fatiscenti e negozi costruiti intorno al cortile principale del carcere"), appunti di storia economico-sociale ("Era un mondo dove solo quei prigionieri con denaro e conoscenze potevano godere di una vita più privilegiata"), passaggi cronachistici ("Nelle prime ore del mattino del 20 agosto 2002, oltre 2000 agenti dell'esercito messicano..."), reazioni emotive degli addetti ai lavori ("Quando siamo arrivati due giorni dopo che avevano svuotato quello che era rimasto del carcere, non era un bel posto") e quant'altro.
Uno pensa a un prison-movie vecchia maniera, tipo Nick mano fredda o Fuga da Alcatraz, oppure a una vigorosa operazione di denuncia pseudo-documentaristica sull'immondezzaio umano in cui ci si può cacciare in certi posti del Centro-America. Invece nulla di tutto questo. El Pueblito resta una mera indicazione topografica, così come il Messico - seppiato, sporco e cattivo: ma con brio - non si libera mai dall'effetto-cartolina.
Viaggio in Paradiso si rivela un action squilibrato ed esteticamente ibrido. Si avverte tanta insicurezza in Adrian Grunberg (fino a ieri aiuto-regista di veri registi), infilata sotto il tappeto dello stile (carrelli, zenitali, camera a mano: c'è di tutto e di più) e camuffata d'ambizione: l'intenzione di trascendere i dati della realtà (quelli ventilati dal pressbook) e il caravanserraglio di genere produce un goffo mischione, dove albergano ascendenze pulp, dark comedy e...Mel Gibson.
Già, lui. Voce (narrante), corpo e anima del progetto: il personaggio rispecchia fedelmente la duplice anima del suo cinema, quella violenta-ma-giusta. Mentre le sue lune condizionano l'umore del Viaggio, facendolo accellerare e decelerare, implodere ed esplodere a piacimento. E siccome gli viene concessa tutta la libertà del mondo, lui si concede persino una gustosa parodia di Clint Eastwood. Quello stesso Clint di cui segue l'esempio (Un mondo perfetto e la sua CREP*) ma non la morale, che rimane invece inconfondibilmente la sua: schietta in apparenza e ambigua in sostanza. * Criminalità Repellente Eccezionalmente Proba.