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Isabelle Huppert in Viaggio in Giappone (2023)
Se ogni film di fantasmi è anche un film sul cinema, allora è a questa categoria che appartiene di diritto Viaggio in Giappone di Élise Girard. E del resto, lo dice anche uno dei due protagonisti, il Giappone è terra di fantasmi. Ogni vivente ha il suo. Quello di Sidonie, la scrittrice francese al centro del viaggio interpretata con inedita leggerezza da Isabelle Huppert, è il marito defunto Antoine (August Diehl). Da quando, malvolentieri, si è catapultata dall’altra parte del mondo per presentare una riedizione del suo fortunato romanzo d’esordio, eloquentemente intitolato L’ombre portèe, lo spettro dell’amato consorte la segue ovunque. E non è l’uomo immaginario di Morin, ma una magnifica presenza reale: eppure senza consistenza. Un’ombra insomma. O, per dirla metalinguisticamente, un’immagine.
Di Morin, altro francese, il film eredita semmai il complesso della mummia. La fluorescenza di una vita che non c’è più ibernata dentro la capsula dell’immagine. La memoria non come residuo ma come realtà. E, nello stesso tempo, lo scioglimento del legame con il dolore, la liberazione dal trauma, la fine dell’ossessione per il tempo imperituro nella scoperta che l’eternità è un giorno. E quel giorno è l’amore (congelato in una successione di istantanee nel finale alla Marker).
L’arte non sarà una terapia come dichiara alla stampa Sidonie ma certo aiuta E allora il viaggio, movimento tra stati e passaggio di stato, ballo gentile tra viventi e defunti, nella balera dell’invisibile, per accettare la presenza dei secondi e scegliere ancora e comunque i primi. E il Giappone per l’occidentale, in questa fortunata stagione di riscoperta cinematografica, non è più lost in translation ma risveglio: transito ideale per rimettere in comunicazione – come una finestra finalmente spalancata – il dentro e il fuori. Ritroviamo gli aironi di Miyazaki e anche i cervi di Nara, fauna e simbolo di quella soglia che lega e separa, sempre. Come soglia è il personaggio dell’editore giapponese, di colui cioè che porta l’anima di Sidonie da un luogo a un altro che l’accrescerà. Kenzo Mizoguchi (perfetto Tsuyoshi Ihara) che non è parente del grande regista - i Mizoguchi in Giappone sono un cognome abbastanza diffuso, scoprirà Sidonie – ma ne porta comunque il testamento spirituale.
Sarà lui a permettere finalmente alla donna di riapprodare – interiormente e fisicamente - da qualche parte. E Kenzo non è il doppio ma è l’altro che gli somiglia. C’è una battuta rivelatrice del film, quando dopo aver salpato per fare tappa su una località marittima fuori Kyoto (dove perlopiù il film è ambientato), Sidonie dice a Kenzo “Sembra Capri”, e l’uomo caustico obietta: “Noi giapponesi siamo sempre stati campioni dell'imitazione”. L’ironia difatti è nei confronti della donna, che non riesce ancora a liberarsi del tutto del proprio immaginario. Del resto, lo dice lei stesso a metà del viaggio: qui riconosco le stesse cose ma non so come si usano.
L’apprendistato non richiederà chissà quali prove. L’itinerario di viaggio e quello del film coincidono anche nel mood, sempre placido, leggero, rasserenato. All’orientale. Volendo trovargli un difetto: fin troppo compassato. O per usare una metafora letteraria, ipostatizzato. Si avverte il pensiero dietro il gesto, l’intenzione di andare esattamente dove si vuole andare. La riedizione del libro che coincide di fatto con la trasposizione filmica. Il Giappone che spiazza e disorienta la protagonista ma che in effetti è molto riconoscibile per il pubblico occidentale. Pure l’accompagnamento pianistico è misto di Bach e Sakamoto che smorza le differenze. Fin quasi a farle sparire. Non è l’intenzione che si giudica ma l’effetto che fa.