Una nave in viaggio tra ghiacci sovrumani; un biologo da Oscar come timoniere; una rotta estrema che va dal cuore del parco naturale della Patagonia fino al Polo Sud; condor, pinguini e foche come compagni di viaggio; sullo sfondo, sempre, l’immensità minacciosa e glaciale dell’Antartide.

È l’ennesimo Viaggio al Polo Sud dell’ormai cinquantacinquenne Luke Jacquet che rimane fedele a sé stesso e al suo panorama (interiore): dopo trent’anni passati errando per i Poli (La marcia dei pinguini, La marcia dei pinguini – Il ritorno, Ice and the Sky), continua ad arare e filmare in senso testamentario il fondo del mondo.

Ghiacci, crepacci scoscesi, pinguini, muri di neve si alternano in un lirico susseguirsi di campi lunghi e lunghissimi; al centro, miniaturizzato, minimizzato lo stesso Jacquet che, dall’America del Sud, punta la bussola fino al luogo dove convergono tutti i meridiani  per un doc forgiato dalla deformazione soggettiva, dal filtro emozionale, dalla devozione sconfinata di un uomo che ha dedicato la vita alla ricerca di estasi e senso sprigionata dalla Natura.

Le condizioni del viaggio, solitarie e proibitive, consentono di giustapporre (fin troppo didascalicamente) l’infinita irrilevanza dell’essere umano ad un Polo Sud che si fa sin da subito maestoso, minaccioso, dominante, proibitivo. Tra il caduco e l’eterno, tra uomini che passano, animali che vi dimorano e alberi che essiccano, “mi rimpicciolisco con piacere e affido il mio destino a forze titaniche, il minuscolo e l'immenso si confondono” sussurra lo stesso regista, per l’occasione sdoppiatosi anche come narratore.

Eppure, oltre le parole, s’impone, piano dopo piano, la scelta retrò del bianco e nero a sprazzi bluastri (la fotografia è a cura di Jérôme Bouvier) che, se calca sulla dialettica uomo-Natura, infonde un senso misterico oltre che un afflato lirico agli scenari, creando un telaio visivo più espressionistico che naturalistico. Finiscono saturati, così e nobilitati il biancore dei ghiacciai, l’aspra immensità delle nevi, il nero dei crepacci e dei gorghi creati dalle masse d’acqua sciolta, fino alle goffe marce e alle pause in riva al mare degli amati pinguini.

È, in altre parole, la sensibilità, la devozione, la commozione di Jacquet che erompe, riplasma e riscalda un doc in itinere, anfibio e sinottico, dalla forte impronta autoriale, dal tasso estetico pronunciato, dal filtro soggettivo gettato sull’oggettiva impassibilità dei ritmi e del regno naturale.

Viaggio al Polo Sud - presentato all’ultimo Locarno Film Festival prima dell’anteprima italiana al torinese Cinemabiente -, però, rimemorando pure tutti i visionari e gli esploratori (da Magellano in poi) scomparsi tra i ghiacciai, non cela il suo pungolo ecologista: celebrando la monumentalità della Natura, invita alla contemplazione, favorisce l’estasi, veicola lo stupore, titilla il mistero, sogguarda l’assoluto, soprattutto ci ammonisce sull’insospettabile, ineliminabile fragilità dell’ecosistema, sull’impatto devastante che posso avere le nostre azioni, sui danni irreversibili a catena che può causare la perdita della biodiversità.