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La riconquista di un’identità di genere nella ricerca di un’identità autoriale. E’ su questo doppio binario – uno tematico e risolto; l’altro estetico e incompiuto – che si muove la Vergine giurata di Laura Bispuri, unico italiano in concorso a Berlino, tratto dal romanzo di Elvira Dones, ondivago tra passato e presente, ambientato tra Italia e Albania. Lì, in una comunità arcaica e patriarcale nascosta tra le montagne, un’androgina Alba Rohrwacher si appella alla legge Kanun, che concede alle donne che giurano di rimanere vergini lo status di uomo e il diritto di vivere liberi. Quando anche sua madre però morirà, la vergine giurata decide di lasciare il clan e muovere nel nord Italia, dove vive una sorella fuggita dall’Albania anni prima.
Inizia così un lento, lentissimo, percorso di riavvicinamento alla propria femminilità, che la Rohrwacher affronta come fosse un calvario, con la consueta enigmaticità e mestizia. Un calvario che la protagonista ridiscende, accompagnata da inquietudini inespresse, brume ambientali e i vagiti di una sessualità ridesta (decisivo l’incontro con un bagnino). La fotografia di Vladan Radovic illumina e sottolinea questo tortuoso percorso identitario, virando dai grigi metallici della prima parte ai toni più caldi del finale, tutto al femminile e imbevuto di colori e di musica.
La Bispuri è regista di corpi, di superfici e di spazi, di impulsi etnografici e di retaggi intimisti. Cerca anche lei uno sguardo, un baricentro visivo capace di unire tradizione e individualità, la ruvida terra d’Albania e la faccia liscia e sfiammata della provincia italiana. Vi riesce a tratti, quando si fa osservante (belle tanto le riprese del funerale Kanun, quanto quelle del nuoto sincronizzato in piscina, entrambe forme ritualistiche di due mondi agli antipodi) piuttosto che eloquente. D’altra parte, dover dire per forza qualcosa con le immagini è un antico tarlo italiano: non si può pretendere che venga emendato tutto in una volta da un’esordiente. In futuro dovrà preoccuparsi di strutturare maggiormente il racconto, ancora acerbo e poco fluido, troppo ancorato alle intuizioni di sguardo. Le premesse per fare meglio ci sono.