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Vento di primavera
Parigi, luglio 1942: i giorni bui delle persecuzioni razziali, ordite dal regime collaborazionista di Vichy su input degli occupanti nazisti. Si erano rifugiati nel quartiere di Montmartre gli ebrei, con la stella gialla al petto, ma non sarebbe bastato: nottetempo, partì la retata, in cui ne caddero 12mila sui 25mila residenti nella Ville Lumière. Tra questi, l'undicenne Joseph, anche lui recluso al Vélodrome d'Hiver, dove il dottor David (Jean Reno) e l'infermiera Annette (Mélanie Laurent) faranno miracoli per dare un minimo di assistenza ai disperati, lasciati a marcire sugli spalti in condizioni inumane, come ideologia nazifascista voleva. Sarebbe stata una sosta temporanea, ma non era una buona notizia: tappa successiva il campo di concentramento di Beaune-La-Rolande, destinazione soluzione finale.
In occasione della Giornata della Memoria (27 gennaio), soffia da oggi in sala il Vento di primavera della francese Rose Bosch, che riporta al cinema la Shoah vista dal basso, con gli occhi di un bambino (Joseph), come fu per La vita è bella e, ancor prima, tra realtà e finzione, Anna Frank.
Il risultato? Pollice alto per le intenzioni civili, memoriali e umane, umanissime, viceversa, la misura è mezza sotto il profilo cinematografico: convincono le prove degli attori, ma la sceneggiatura è fin troppo lineare, priva di fughe poetiche, e procede spedita sulla retta via del pathos, pur non cadendo nel ricatto. E la regia? Meramente illustrativa, attaccata alla storia-Storia, senza ulteriori focus d'indagine.
Eppure, al di là della riduzione ai minimi termini della sintassi cinematografica, le ombre dell'Olocausto si allungano sul nostro presente: il vento porta il memento, la pietà per i sommersi e la necessità memoriale dei salvati. Ed è ancora primavera.