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Il veleno è quello della Terra dei Fuochi. Anche, tuttavia, quello che ammorba le azioni degli uomini e si insinua nella vita degli umili, nella duplice forma della disperazione e del disfacimento fisico, destinati a soccombere, non diversamente da chi il male lo vive come pratica quotidiana, dinanzi alla negatività dell’esistenza.
Veleno, di Diego Olivares, è un’opera disturbante nelle premesse, tentennante nell’esecuzione, che aspira a rientrare nell’ambito di un cinema duro, lontano da ogni spettacolarità e profondamente teso alla descrizione impietosa di una realtà infamante. Il cinema di Zvyagintsev, ad esempio, nei suoi momenti più a fuoco (Leviathan su tutti). Purtroppo, il dramma della famiglia di allevatori-agricoltori Cardano - due fratelli, Cosimo ed Ezio, con le rispettive mogli - assediata dai gangli della camorra, intenzionata a impadronirsi della loro terra per depositarvi illegalmente rifiuti tossici, non convince del tutto.
Colpa, forse, del “gomorrismo” in agguato che cozza, e con violenza, contro la velleità di un cinema austero e morale. Cesellatura non eccelsa dei dialoghi ed eccessive sottolineature, alcune decisamente di cattivo gusto o semplicemente superflue (filmare il sesso non è facile, d’accordo, ma perché ridurlo a siparietto, tanto retorico quanto banale, di perversione morale?), non aiutano il quadro generale.
Come da copione, l’assenza dello Stato è ormai una costante. Le performance del cast, infine, sono altalenanti: se Massimiliano Gallo conferma la propria caratura dopo l’ottima prova di Per amor vostro, Luisa Ranieri è attrice troppo raffinata per apparire pienamente credibile nel ruolo della massaia devota e tormentata, mentre Salvatore Esposito sembra la scialba controfigura del Genny Savastano che lo ha imposto all’attenzione del grande pubblico.
Film di chiusura della Settimana Internazionale della Critica a Venezia 74.