PHOTO
Vasco Rossi in Supervissuto
“Sono sopravvissuto agli anni di piombo, agli anni Ottanta, alla Milano da bere. Io sono sopravvissuto grazie al rock”. Nelle parole con cui si apre Supervissuto, la docuserie Netflix in 5 puntate dedicata a Vasco Rossi disponibile dal 27 settembre sulla piattaforma, c’è tutto il manifesto esistenziale e artistico del rocker di Zocca.
Una confessione a metà strada tra l’album dei ricordi – con un imponente lavoro di ricerca di archivio – e l’apologo, in cui la più grande rockstar italiana ripercorre con perfetta scansione temporale la propria vicenda personale e musicale. Mettendola sotto riflettori dove le luci trionfano sulle ombre.
Il rapporto tranquillo con i propri genitori, le prime schitarrate nella provincia emiliana, l’incontro con Curreri, gli album autoprodotti, gli eccessi, le droghe, il carcere, l’amore per Laura (l’attuale moglie), la nascita di Luca, la scoperta di un secondo figlio, la consacrazione nei bagni di folla degli stadi. C’è insomma tutto quello che ogni fan e biografo di Vasco conosce a menadito. Con la voce dei compagni di strada, l’ombra di quelli che non ci sono più (dal padre a Massimo Riva), lampi di vita domestica e istantanee familiari, punteggiate da brevi estratti delle hit che lo hanno reso famoso, una selezione piuttosto obbligata e offerta a singhiozzo.
Proprio questa scelta rende Supervissuto più un memoir privato che un documentario musicale, genere che noi italiani frequentiamo poco e sappiamo fare anche meno. Un “retro del palco” girato durante il covid, in cui si avverte l’esigenza di Vasco Rossi di rimettere ordine ai capitoli della propria vita, in cerca di sintassi e filo narrativo. Un bisogno che finisce per informare questo lavoro di Pepsy Romanoff anche dal punto di vista della struttura discorsiva, che fila via con ordine, progressione cronologica (scandita con gli anni di uscita degli album), ritmica morbida in confezione patinata. Quello che manca è un po' di rumore e di sporco, fosse anche la ruggine di quella vita spericolata urlata in faccia al pubblico dell’Ariston nel 1983.
Come se il “supervissuto” – scampato realmente a tre malattie mortali – finisse per mostrarsi il soccombente di quell’industria creativa che per anni, in special modo i primi anni, aveva combattuto. D’altra la partecipazione consensuale di Vasco era la premessa a un progetto supercontrollato, un tassello ulteriore della sua personale mitobiografia a uso e consumo dei fan. Chi invece sperava in un approccio più libero, un lavoro di rimaneggiamento visivo-concettuale della sua poetica musicale resterà inevitabilmente deluso.