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Giulio Pranno e Benedetta Porcaroli in Vangelo secondo Maria
Lo hanno fatto, su tutti, Martin Scorsese e Paul Schrader, preferendo ai canonici la riscrittura di Nicos Kazantsakis, per entrare, come mai prima, nei più intimi pensieri di Gesù, fino alla sua ultima tentazione. Era il 1988: e fu scandalo. Con Vangelo secondo Maria, presentato fuori concorso all’ultima edizione del Torino Film Festival, anche Paolo Zucca ha scelto la strada di una doppia mediazione, portando sullo schermo, in un film piccolo ma sentito, il ritratto di Maria di Nazaret scolpito dalle militanti pagine femministe di Barbara Alberti.
Ci sono voluti 45 anni, e una radicale riscrittura del finale, per ritrovare in sala quel libro manifesto; l’autrice, nel 1979, lo dedicava “a donne che (si credeva) stavano prendendo in mano la loro vita. Ora a donne che la stanno perdendo”. La trasposizione cinematografica, con la sua incontestabile attualità, è dunque anche un invito alla conoscenza di una storia di coraggiose battaglie e di conquiste che non sono date per sempre. Cosceneggiato dal regista con la stessa Alberti e Amedeo Pagani, Vangelo secondo Maria, come il romanzo, risponde alla millenaria necessità di riempire i vuoti della narrazione evangelica, e più specificamente di approfondire la psicologia di una figura lungamente fatta oggetto di manipolazioni patriarcali, alimentate dallo stesso medium cinematografico. Ad un archetipo mariano passivo e silenzioso, desessualizzato, centrato sull'umiltà e sull'abnegazione, Barbara Alberti contrapponeva l’immagine di un’adolescente avventurosa e assetata di scienza, che rifiuta la costrizione di un matrimonio combinato, penetra i segreti della natura e ogni sabato corre alla Sinagoga ad ascoltare le disobbedienze dei profeti.
Sorella di tutte le giovani Yentl pronte a indossare panni da ragazzo per accedere allo studio (è del 1983 il film di Barbra Streisand dal racconto di Isaac B. Singer), Maria, vergine violata dal disegno divino, nel rovesciamento dell’Alberti grida al cielo il suo rifiuto di un destino non cercato. Da allora il cinema ha in varia misura accolto il cambiamento promosso dalla stessa mariologia in consonanza con una società in trasformazione.
Una nutrita schiera di “vite di Maria” le ha regalato nuovi tratti di libertà e di indipendenza; i risultati, tuttavia, sono stati scialbi, se si esclude la colta e personalissima interpretazione firmata da Guido Chiesa con Io sono con te (2010). Paolo Zucca ha cercato altrove la sua ispirazione. Scansato anche il riferimento diretto alla scabra poesia sacra di Su Re (2013), girato tra le rocce lunari del nuorese dal conterraneo Giovanni Columbu, il regista sardo risale alla comune origine pasoliniana per un racconto che respinge ogni spettacolarizzazione; dalle gallerie di volti popolari l’omaggio si estende al corto circuito nella figura dell’angelo, con le sue ali da recita religiosa.
Seguendo il principio di un’ideale analogia poetica, Zucca trova la sua Matera, e figurativamente la Palestina precristiana, nell’arcaica koinè mediterranea che infonde il patrimonio archeologico e antropologico della Sardegna. Del libro, il film sviluppa la storia d’amore tra Maria (Benedetta Porcaroli) e Giuseppe (Alessandro Gassmann), “vecchio gigante” che si fa maestro e complice del suo progetto di autodeterminazione. Non era certo impresa banale mettere in quadro la parola poetica di Barbara Alberti e il vorticoso flusso di coscienza della sua Maria. Il film a tratti ne stempera le ebbrezze e i furori; ma convince, tra altre, la scena che ambienta astoricamente sul bastione di Saint Remy il sogno di Maria. “Venerata come simulacro, ignorata come persona”. Parte da qui un risarcimento che, 45 anni dopo, fa proprio il programma dell’Alberti e si impegna a far sorridere la Madonna.