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Vallanzasca - Gli angeli del male
Ha torto Placido: non sarà certo per la bellezza del protagonista ("Certa stampa non ama gli attori belli", aveva detto) se la critica storcerà il naso di fronte al suo Vallanzasca - Gli angeli del male. I difetti del film sono altri, la maggior parte dei quali attanagliano da sempre il cinema dell'attore e regista pugliese. Nel ripercorrere la parabola del più famoso dei banditi italiani (la sceneggiatura di Placido e Kim Rossi-Stuart è tratta dall'autobiografia di Vallanzasca, Il fiore del male, scritta dal bandito con Carlo Bonini) Placido utilizza un procedimento già adottato in Romanzo criminale: quello dell'accumulo.
Non una "carrellata" di episodi - che farebbe pensare a una fluidità di montaggio e di accostamenti - ma l'affastellamento di momenti narrativi forti, assordanti (la colonna sonora, dei Negramaro, non s'interrompe mai per tutta la durata del film), virati - meglio, sporcati - in blu. Placido conferma di essere la nemesi di Antonioni, il suo disprezzo per i campi lunghi è l'effetto di un'allergia per le distanze, di spazio e di critica. Nessun respiro, cinepresa incollata al corpo degli attori (convincono Rossi Stuart e Scianna, meno Timi), montaggio a mitraglietta, e la ritmica interna all'immagine delegata sempre al crescendo di un atto violento.
Dal frullatore rimane fuori tanto la verità del personaggio, quanto il contesto socio-politico. Potrebbero essere gli anni settanta come i duemila, e del resto che importa? Il tema vero - questo sì pericoloso, alla faccia del solito polverone polemico sollevato da associazioni e giornalai (definizione corretta se si pensa alla mutazione in cui è incappata certa stampa italiana) - non è la fascinazione del male, ma la banalità di un cinema che si professa coraggioso quando poi è solo esagitato e compiacente.
Tipico del metodo Placido: mirare alla critica per colpire il pubblico. Temiamo che anche stavolta sia andato a bersaglio.