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Valerio Lundini in Faccende complicate
In un Paese in cui quasi tutti i comici o presunti tali si lagnano che “non si può più dire niente”, Valerio Lundini ci ricorda che si può dire e fare tutto (e che lamentarsi del cosiddetto politicamente corretto è una moda). E in un panorama abbastanza rigido, dove il massimo dell’audacia è spostare le stesse persone dai piccolissimi ai piccoli schermi fino a quelli grandi, fingendo di dimenticare che i contenitori contano quanto i contenuti, Lundini spariglia, ancora una volta. Perché ha capito che la televisione è uno spazio aperto, che sia quella lineare (Rai 2, dove per tre stagioni ha brillato il suo Una pezza di Lundini, miglior programma comico degli ultimi anni) o non, cioè RaiPlay, dove arriva Faccende complicate (dieci episodi da circa venticinque minuti l’uno, tre alla volta ogni venerdì).
Come la Pezza, un format inclassificabile, ben rappresentato dal sottotitolo “Inchieste reali su realtà surreali”, un viaggio in Italia in forma di serie mockumentary per esplorare la complessità del quotidiano attraverso lo sguardo di un osservatore che porta all’estremo l’understatement, un umorista a suo agio con l’assurdo, uno stand-up che usa la maschera del disagio per adattarsi alle circostanze. E, come la Pezza, anche Faccende complicate è anche una parodia – e di conseguenza una riflessione – della televisione e della sua retorica.
Il primo episodio, “Trovare una casa è un tema”, parte con l’impaginazione di Report, anche perché l’argomento – i contratti d’affitto negati a un ragazzo napoletano con la pelle nera – si presterebbe a un’inchiesta del prestigioso programma di Rai 3 (rete a sua volta molto citata come cavallo di Troia per intervistare i passanti). Lo stile (telecamere nascoste, camera a mano, pedinamento) è giornalistico ma è evidente che dietro ci sia una scrittura comica molto forte, dove il situazionismo è ad altezza satirica e il rapporto tra Lundini e i protagonisti di puntata si fonda sugli effetti paradossali dello spaesamento, con deviazioni irresistibili (la gita nel Medioevo, cioè una rievocazione storica in Abruzzo: “è molto bella questa cosa di rivolgersi a una donna chiamandola principessa perché lo è veramente e non perché si è coatti” osserva Lundini).
E se il secondo episodio, “Beauty, anzi beautiness”, simula un factual di Real Time (conflitti in interno familiare) intrecciandolo con servizi da pomeridiano generalista (il concorso di Miss Nonna a Bellaria), per mettere in scena un ridicolo esperimento sociale sull’ossessione della bellezza, è nel terzo, “Quel giuoco che ricorda la dama”, che Lundini si rivendica vero trait d’union tra la commedia all’italiana (sponda I mostri) e una comicità feroce quasi nera, con la complicità di uno scacchista torinese disabile a cui viene proposto di partecipare una gara di scacchi-pugilato.
È tutto qui: non si ride di qualcuno, si ride con qualcuno. E Lundini è il corpo comico del suo tempo: non ride mai e costruisce il disagio, è ironico e non sarcastico, costeggia la malinconia senza compiacersene, cerca la trasversalità e respinge l’ecumenismo, fa satira stando dentro le cose. Non è vero che non si può più dire niente: semplicemente, chi se ne lamenta è meno bravo di Lundini.