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Luc Besson non ama la critica e al di fuori della sua ‘famiglia’ cinematografica non frequenta altra compagnia. Non è un caso che ciascuno dei suoi film tracci una linea di fuga. Sotto terra (Subway) o sott’acqua (Le Grand Bleu), questo grande enfant perdu dentro un mondo ostile vuole essere altrove e lontano. Esiste (anche) per questo un pianeta Besson che prende daccapo le distanze dalla realtà concependo uno spazio-opera abitato dal multiculturalismo di Star Wars.
Ma il confronto finisce qui, perché Valerian è azione sfrenata con messaggio romantico lontano-lontano dalla galassia interstellare di George Lucas. Budget faraonico e spreco epico, il nuovo science-fiction di Besson è l’adattamento del fumetto franco-belga Valérian et Laureline che ha ispirato numerose produzioni americane dopo la sua uscita in fondo agli anni Sessanta. Valerian ritrascrive con prodezza tecnica gli eventi contenuti nel sesto volume (“L’Ambassadeur des Ombres”): mandati in missione nella straordinaria città intergalattica di Alpha, due agenti spazio-temporali indagano sul mistero che minaccia l’esistenza di una colonia in cui convivono le principali civiltà dell’universo.
Scivolando progressivamente verso il mainstream puro, il cinema di Besson perde la vertigine interiore del suo tuffatore metafisico e trova i suoi colori saturi e primari: il bene, il male e ancora. Dal momento che non è sufficiente uccidere il male o soltanto vanificarlo, Besson cerca qualcosa per rilanciare, prendendosi tutta la libertà con i tic e i gadget indispensabili al genere o infilando deviazioni che portano al cuore della galassia-Rihanna con le sue multiple fogge e le labbra rosso vivo che accendono il desiderio insaziabile di Dane DeHaan. A immagine della camaleontica artista, Valerian scarta il racconto principale e cambia linea iscrivendosi in un movimento perpetuo dove la bizzarria volge presto in torpore. Cinema pop, semplicemente, Valerian riconferma Besson illustratore di un immaginario sprovvisto di astrazione.