Vakhim è, ad oggi, il ritratto più personale, intimo, autentico, disarmato, perfino politico di Francesca Pirani (nel curriculum più recente anche D’Annunzio, l’uomo che inventò se stesso e Beo): è, infatti, la storia in prima persona – la regista di scuola bellocchiana, oltre che sceneggiatrice, è qui anche voce narrante - della sua maternità difficile a cavallo tra Italia e Cambogia.

Al centro, la parabola del figlio che nomina il film. Vakhim è portato nel 2008 a Roma dal remoto orfanotrofio cambogiano di Phnom Penh. Il bambino inizialmente non conosce l’italiano, ma, tra passione canora, scuola, cartoni e basket, s’integra, si fa adolescente, rincontra e si lega alla sorella Maklin, a Roma per l’università, fin quando, spunta la possibilità di conoscere la loro madre biologica. Il viaggio in Cambogia dei genitori adottivi e dei fratelli è, allora, ricerca del passato perduto, del villaggio dimenticato, di una lingua rimossa, di un popolo, di una cultura, di un modo d’essere perso nelle nebbie dei ricordi d’infanzia.

Pirani apre l’album dei ricordi famigliari e compone, senza remore, un doc sofferto, che sa di liberazione e ricomposizione degli affetti. Il film si struttura in un continuo ponte espressivo: tra realismo e memoria, tra comunicabilità e incomunicabilità, tra presenza e assenza, tra identità e assimilazione culturale, tra padri e figli, tra vicinanza e distanza, tra italiano e khmer, tra passato e presente, tra famiglia acquisita e famiglia biologica. 

Stilisticamente ciò si traduce nell’alternanza tra gli home movies d’epoca che catturano tutta l’infanzia del figlio e i frangenti di fiction che ricostruiscono, con licenza di inventare, le fughe con la madre biologica dal marito alcolizzato e violento.

Vakhim è un doc composito, intimamente familista, che si fa confessionale aperto e genealogia famigliare, dove la ricerca di radici identitarie è complessità irrisolta, a volte rimossa, spesso rinnegata, ma resa con una strabordante cifra emotiva, che si snoda lungo tutta la vita del giovane protagonista. Un’opera che, di scorcio, ci consegna pure, con tutto il suo indiretto carico di denuncia, lo scandalo delle adozioni internazionali, nella scelta forzata delle madri cambogiane di svendere i figli per pochi soldi in quanto incapaci di garantire loro un avvenire decoroso. Sfruttamento economico che strangola, dunque, la scelta della maternità. Una povertà che dilania il mondo asiatico, mentre l’agio borghese occidentale permette di prelevare e allevare i figli d’Oriente.

Oltre a ciò, alla lunga si staglia anche lo sguardo limpido e affascinato che la camera di Pirani getta sulle strade polverose, sui villaggi verdeggianti, sull’ingenuità felice degli abitanti, sulle fronde verdi, sulla fauna cambogiana. Come a tradurre visivamente un’alterità luminosa, un’inafferrabilità di senso, una sete di ricerca e scoperta che caratterizza tanto l’occhio straniero quanto, per traslato, il mistero inesauribile della genitorialità.