La quotidianità di Virginio e Sisa, un’anziana coppia quechua, scorre lentamente nella loro umile casa immersa nell’Altopiano boliviano. Routine scandita da gesti e azioni rodate in cui ognuno dei due svolge caparbiamente le singole mansioni: allevatore di lama lui, gestrice delle attività casalinghe lei e insieme contribuiscono al fluire armonico dell’amata quanto silenziosa normalità, vissuta di pari passo alle connaturate proprietà della terra.

Una cauta esistenza protagonista di Utama - Le terre dimenticate, opera prima di Alejandro Loayza-Grisi, Gran Premio della giuria al Sundance Film Festival e film che rappresenterà la Bolivia ai prossimi Oscar. Quello che per una vita è stato un rapporto viscerale e simbiotico con la ciclicità della natura, ora sembra essere diventato un legame destinato al fatale deterioramento. Terreni un tempo genitrici di ricchezza sono oggi infruttuosi, inospitali ed ostili anche alla sempre più scarna popolazione autoctona che li ha amati e curati per decenni.

La siccità, in particolare, sembra voler imprimere irrevocabilmente la parola fine a tale impegno, sancendo di conseguenza la progressiva inadeguatezza di chi, come Virginio e Sisa, continua a ripetersi a mo’ di incessante mantra che “la pioggia sta arrivando”, autoconvincendosi di non essere di fronte ad una difficile decisione da prendere: resistere nell’attesa o lasciare la loro casa per la città.

Sarà l’arrivo del nipote Clever, deciso a convincerli al trasferimento, a porli faccia a faccia con la realtà che non potranno più sottovalutare. Le deteriorate condizioni nelle quali vivono e il respiro affannoso dell’uomo, culminate in una tosse minacciosa, spingono il giovane ad accelerare l’opera di convincimento scatenando il serrato scontro familiare che nasconde in sé l’universale contrasto generazionale.

Due mascolinità a confronto: un ragazzo dalle intenzioni onorevoli, ma inconsapevole della portata psicologica che lo “strappare” i coniugi dalla vita fino a quel momento vissuta implicherebbe; ed un uomo, nel pieno della senilità, riluttante alla sopraffazione perché abituato ai propri luoghi, a dimostrare l’amore profondo con piccoli gesti o ad appellarsi alla sacralità dei riti per risolvere temibili preoccupazioni.

Agli occhi di Virginio, infatti, Clever diviene personificazione dell’inarrestabile cambiamento ambientale e forza distruttiva atta ad inghiottire la ritualità ancestrale, caratterizzata da arcaiche liturgie, fondamenta primaria del popolo di appartenenza. L'amara metamorfosi del paesaggio è splendidamente rappresentata da una scelta registica che sceglie di immortalare immensi spazi deserti ed aridi, visivamente riconducibili all’archetipo cinematografico americano della Monument Valley e all’umanesimo fotografico di Salgado, che invece trattengono dolorosamente le conseguenze dei feroci mutamenti climatici.

Delicatezza compositiva che riesce a determinare un ammonimento silenzioso preferendo la dimostrazione pacata ed empatica di una tragica problematica, agli appelli pietistici e alle immagini funeste veicolate da un certo cinema catastrofico, complice nel congetturare angosciosi scenari; il tutto tramite una storia d’amore parentale fatta di tradizioni da preservare e di consapevolezze sull’impossibilità, più volontaria che non, di abbandonare “utama”, ovvero “la nostra casa”.