PHOTO
Uomini in marcia
Diritto al lavoro e allo sciopero. Mobilitazioni e manifestazioni. Testimonianze d’epoca e d’attualità. Un’unica arena, simbolica, come teatro degli scontri. Un’isola che all’alba degli anni Novanta si raduna e si mette in marcia. Il consorzio affratella minatori, agricoltori, operai, disoccupati, donne, sindacati, prelati e politici per chiedere al Governo sviluppo, tutele, diritti.
L’affresco sociale di Peter Marcias è sentito, accorato e prezioso. Il regista oristanese rispolvera una faglia di tensione sociale che allora percorse tutta la regione per consegnarla con veemenza al dibattito dei nostri giorni.
Uomini in marcia è stereoscopico e completo: antropologico nell’impalcatura, simpatetico nello sguardo, poderoso nella documentazione, nostalgico nel richiamo a un’ideologia perduta.
Scritto dallo stresso Marcias, fotografato da Simone Ruggiu, il doc come viaggio alla fine della classe operaia si snoda tra miniere (Carbonia), fabbriche, porti, campagne, vallate, città sarde. Nord e Sud (la Sulcis-Iglesiente). Operai e costituzionalisti (Gianni Loy, professore cagliaritano di diritto del Lavoro, qui cantore dell’ingiustizia). Sindacalisti e registi: spuntano perfino il vessillifero della working class Ken Loach – “fino a poco tempo fa pensavamo che se non avessimo vinto questa volta, avremmo vinto la prossima o quella dopo ancora o tra 20 anni, 50 anni. Ora non più” – e Peter Carnet.
Dopo Uno sguardo alla terra delle miniere di Carbonia, Marcias l’archivista condensa ancora denuncia umanitaria e ambientalista, sociologia di classe e dei sindacati, radiografia del Novecento operaio: il montaggio di Fabrizio Federico (Disco Boy, Notturno) alterna testimonianze, filmati d’archivio, fotogrammi, volti, interviste, denunce e disastri.
Va da sé che, pur con la cinepresa stretta in uno spazio-tempo circoscritto (i ventisette comuni della Sardegna meridionale che insorsero scioperando nel 1992-93) il doc assume un rilievo nazionale, e un’intonazione epica, involontaria certo, ma comunque dirompente.
Niente saggio in immagini, però, né tantomeno caccia alla multinazionale criminogena e al potere predone. Marcias riduce lo spettro del visibile, si limita al controcampo vessato per riunire le tante particelle sociali che non comunicano più pur chiedendo la stessa cosa. Vuole guardare in faccia, accarezzare, capire, riscattare i lavoratori. E nel farlo, ci semina in testa, di soppiatto e senza borie cattedratiche, boccioli d’analisi e d’indignazione civile.
A fare da amalgama l’ostinata (ideologica) speranza di ribaltare le ingessature della società, la smania di riconquistare attraverso il linguaggio filmico dignità, tutele e diritti sanciti dallo Statuto dei Lavoratori, ma ancora oggi attuati di rado, come sottolinea il professor Loy.
Volti e immagini. Famiglie smembrate e mare devastato: mariti emigrati e fuggiti, padri senza figli o in lotta tra loro per il lavoro, donne in cammino fino a Roma. La cinepresa non lascia indietro nessuno senza mai scadere nella retorica più compassionevole.
L’inclinazione alla denuncia, infatti, non si ripiega in sé stessa, sul finale lievita per prendere di petto le contraddizioni del futuro: la questione operaia, stravolta ma non risolta dalla tecnica, e soprattutto quella ambientale.
Insomma, sia Loach che Marcias non si sono ancora rassegnati all’apocalisse. Anzi sono sicuri che “possiamo salvarci, se abbiamo cura dell’ambiente che ci ospita. Tutto passa da lì”.