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Il viaggio senza fine di Michael Glawogger si interrompe bruscamente nel 2014, in Liberia, luogo in cui il regista, fotografo e scrittore austriaco muore improvvisamente di malaria, a 54 anni.
La montatrice Monika Willi, sua collaboratrice storica, ha saldato insieme, rielaborandolo, il girato dell’ultimo, lunghissimo viaggio intrapreso da Glawogger. Un viaggio, e un documentario, su tutto e sul niente, a partire dal significativo titolo che rifiuta a priori ogni etichetta.
L’idea iniziale sembrava essere proprio questa, vale a dire filmare la realtà durante il viaggio e senza un progetto ben definito: Balcani, Italia, l’Africa Settentrionale e poi quella equatoriale, dal Marocco alla Sierra Leone e fino alla Liberia, la terra della fine.
Non abbiamo, qui, il cineocchio, l’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov che svela l’essenza delle cose al di là della loro nitida rappresentazione meccanica.
Il percorso di Glawogger, se vogliamo, è al contempo più umile e più ambizioso ancora, documentaristico solo in apparenza. Annullarsi nel fluire inarrestabile delle cose nel tentativo seminale di farsi “cinema totale”, riproduzione immediata, in senso letterale, della realtà, come accadeva presso i cineasti dei primordi. Un’ambizione che, probabilmente, non ha mai smesso di covare nel cuore di chi si appresta a prendere posto dietro una macchina da presa.
Il rischio di pulsione estetizzante è altissimo e, a dirla tutta, mai completamente esorcizzato. Eppure, questo viaggio senza meta, tra didascalie minimali ed estratti di diario, possiede un suo fascino incantatorio.
I deserti africani, con i corpi straziati degli uomini e le carcasse di cammelli, le solitudini dei monti balcanici, le disastrate metropoli del terzo mondo e l’infinita, spossata, sorridente varietà umana squadernata da un flusso di immagini che sembra non potere, e non volere, avere un centro, rischiano di lasciare storditi; estrarre un senso da tutto ciò non è agevole, ma che cosa, in fondo, lo è?