Chi, come la giovane Melanie si avventura nella misterica Gore Valley sparisce. Così, la sorella Clover (Ella Rubin) un anno dopo si rimette sulle sue tracce con quattro amici al seguito. Giungono ad un villino solitario che, al calar della notte, si scopre infestato. Tutta la combriccola, poi, è scannata da un orrido assassino mascherato. I cinque, però, subito si risvegliano vivi e consapevoli di essere morti, ritornando all’inizio della stessa notte. Nella casa, infatti, si muore e si ritorna alla vita più volte, il tempo che una clessidra si svuoti. Ma le rinascite sono limitate. Per sopravvivere definitivamente bisogna l’assassino e sopravvivere fino all’alba.

Un decennio fa, Sony Computer Entertainment portava su Playstation 4 Until Dawn, un videogioco survival horror di ruolo e corale. La missione? Sopravvivere in undici notti dentro uno chalet dell’Alberta assediato mostri mortiferi, oggetti letali e misteri da ricostruire. 

Dopo il successo di pubblico e i premi, il pluridecorato cortista David F. Sanberg – che ondeggia tra blockbuster d’azione (Shazam) e horror di successo (Lights Out – Terrore nel buio) – svuota il videogame di partenza, ne mantiene l’intelaiatura avventurosa, come la tensione escapista, ma lo inzeppa delle convenzioni più canoniche del genere, derivate dalla sceneggiatura a quattro mani di Gary Dauberman (anche co-produttore) e Blair Butler.

Del videogioco sopravvive l’unità di luogo e di tempo (il classico villino in notturna, covo di demoni e spiriti che si rivelerà iceberg, poi, di un villaggio sommerso), si riducono i protagonisti, se ne minimizzano, anzi banalizzano le psicologie, aumentano le notti, variano le imprese da compiere, si mantiene iterazione e variazione dell’identico (morti plurime e sempre più spaventevoli, prima della rinascita), come l’alleanza tra i ragazzi per la salvezza.

Peccato che, Sandberg pur garantendo al film densità e varietà di ritmo, pretendendo di parodiarli, inzeppa di cliché il survival movie, senza innovarli o problematizzarli: lo scantinato semibuio e mortifero; l’ambientazione notturna e piovosa; i cattivi con asce, maschere, bambole possedute; i cadaveri spiritati; i protagonisti cavie di un esperimento maligno; la morte come reclusione spaziale; il bosco da attraversare come liberazione; un certo, gratuito gusto per lo splatter e uno ancor più prevedibile per il body horror a tinte funeree. 

Così, dalla confezione da coming of age, spunta fuori un sanguinolento, sincopato assemblaggio di horror, compatto sì, ma, in fondo incapace di camminare sulle sue gambe, che cerca testardamente lo spavento e il terrore, ma trova più spesso l’umorismo nero e la derivatività, scivolando sul colpo di scena finale, ma tenendo il punto su una visione positiva della vita nel trapasso dal Male (interiorizzato) al Bene.

Sanberg celebra, malgrado tutto, il sacro vincolo dell'amicizia, ma si mostra, concentrato com’è a museificare il genere, di valorizzare il cast, di entrare nella pelle delle sue creature. Se Peter Strormare in versione Dottor Hill garantisce imprevedibilità e intensità a tinte psicotiche, il valente Michael Cimino è anemico, mentre la protagonista Ella Rubin non sfuma ove necessario i registri, incarnando con opacità un’atterrita ma determinata indagatrice del Mistero.