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Una storia senza nome, ma una storia vera, tratta dalla cronaca, e ancora senza finale: il furto avvenuto a Palermo del 1969 della Natività di Caravaggio. Ci fu dietro, davanti e di lato la mafia, ci fu un superpoliziotto a indagare, e c’è materia cinematografica, sicché Una storia senza nome, co-scritto e diretto da Roberto Andò.
Un regista di cui conosciamo cultura e classe, che qui conferma l’eleganza del tratto, la sprezzatura affabile, il piacere drammaturgico, la pulizia narrativa: un thriller, in cui autorialità e identità, trattativa Stato-mafia e adesione al genere si accostano, compenetrano e adagiano tra trama e ordito senza colpo ferire, con calma e assertività.
Fuori Concorso alla 75esima Mostra di Venezia, attesta la predilezione di Andò per il registro corale, l’affabulazione mite e il cinema di parola, nonché la salda direzione d’attori, da Micaela Ramazzotti a Renato Carpentieri, da Alessandro Gassmann a Laura Morante.
Nel film, la giovane, avvenente e autocastigata Valeria (Ramazzotti, dedita), segretaria di un produttore cinematografico, esiste più che vivere, prestando la penna a un sceneggiatore bellimbusto (Gassmann, istrionico) e condividendo il pianerottolo con la madre punitiva (Morante, charmant): il tran-tran s’incrina quando un poliziotto in pensione (Carpentieri, perfetto) le offre “una storia senza nome” sul misterioso furto di un Caravaggio, da cui le verranno palpiti, pericoli e, sì, drastici cambiamenti…
Tra antropologia mafiosa di stretta osservanza cinematografica e Cinema all’apogeo della decadenza (il maestro Jerzy Kunze incarnato dal superbo Jerzy Skolimowski che cita Viale del tramonto…), metacinema e autoironia, Una storia senza nome non si prende sul serio, ma nemmeno è faceto: la politica che vuole alzare il rating italiano grazie al Caravaggio, la mafia pronta a venderlo (150 milioni…), il dipinto che non c’è, e l’Italietta che scrive, delinque e vive nello stesso modo, da fantasma.