PHOTO
Una Squadra
Per parlare di Una squadra, docuserie in sei episodi che ricostruisce la storica vittoria italiana della Coppa Davis nel 1976, è utile leggere i nomi degli sceneggiatori.
C’è Domenico Procacci, produttore che con la sua Fandango ha segnato il cinema italiano degli ultimi trent’anni (L’ultimo bacio, Respiro, Gomorra, Smetto quando voglio) e qui al debutto come regista. C’è Lucio Biancatelli, giornalista ma soprattutto narratore dello sport del passato (con Alessandro Nizegorodcew ha scritto 1976. Storia di un trionfo, libro dedicato alla stessa impresa rievocata dalla serie).
C’è Giogiò Franchini, montatore di lungo corso che ha collaborato, tra gli altri, con Paolo Sorrentino e Antonio Capuano. E c’è Sandro Veronesi, due volte Premio Strega, uno degli scrittori più importanti e influenti del nostro panorama letterario. Ai quattro vanno aggiunti due collaboratori: Mario Giobbe, veterano del giornalismo radiofonico sportivo; e Luca Rea, autore tv a suo agio tanto con Sergio Corbucci quanto con Aldo Moro.
Partire dalla scrittura ci offre la possibilità di ricavare le quattro caratteristiche – che va da sé sono anche doti – di Una squadra: l’intuizione produttiva di rievocare e cavalcare una storia che apparteneva soprattutto a chi c’era all’epoca e agli appassionati nati dopo quel trionfo; la ricostruzione di un’epopea sportiva strettamente legato alla storia culturale, politica e sociale di un Paese; l’idea di una narrazione che alla cronologia preferisce un montaggio vivace che procede per assonanze; la restituzione epica di un evento che si eleva dalla cronaca per farsi romanzo grazie allo sguardo e al respiro di un grande scrittore. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che, negli ultimi mesi, le gesta di Matteo Berrettini, arrivato a un passo dalla vittoria a Wimbledon, hanno dato nuova linfa al discorso amoroso tra gli italiani e il tennis: celebrare un passato glorioso come modo per dialogare con il presente.
da sinistra Corrado Barazzutti, Tonino Zugarelli, Paolo Bertolucci, Adriano Panatta, Nicola PietrangeliPrima di tutto, Una squadra è un progetto sintonizzato su una tendenza internazionale: la scelta della non-fiction come strumento per raccontare – e ri-raccontare – un fatto noto, spesso incastonato nell’immaginario collettivo ma rivisto attraverso una lente diversa, con una chiave di lettura alternativa alla riproposizione didascalica e coerente e con un approccio adiacente al cinema di finzione per ritmo, misura, tensione. Di esempi aurei ce ne sono molti; volendo trovare qualcosa che accomuna prodotti assai diversi tra loro come Wild Wild Country e Tiger King per citarne due di largo successo, notiamo come nei casi migliori queste storie riescano a coinvolgere gli spettatori meno scontati, senza lasciare indietro quelli già edotti o vicini alla materia.
È una testimonianza della fertilità di un genere, delle possibilità infinite offerte dall’audiovisivo, della versatilità della non-fiction che mai come negli ultimi anni ha cambiato pelle, modi, strumenti non limitandosi soltanto alla reiterazione del documentario canonico. È bello notare come l’Italia si stia avvicinando a questo filone, a partire dal capolavoro SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano, uno spartiacque che ha aperto la strada a travolgenti narrazioni che danno voce ai protagonisti incrociando le verità di ognuno (pensiamo alle recenti Veleno e La Mala – Banditi a Milano).
E rincuora che, nel buttarsi nella mischia peraltro mettendoci la firma da regista, un produttore come Procacci elegga a modello di riferimento una docuserie che ha davvero poco a che fare con la nostra tradizione, The Last Dance sulla carriera di Michael Jordan. Segno non solo d’intelligenza creativa ma anche di sguardo prospettico: quella storia lì, d’altronde, aspettava solo una mitologia audiovisiva che ne cristallizzasse il ricordo a futura memoria.
Domenico Procacci (foto di Alberto Novelli)Superando i manierismi del pur inappuntabile storytelling di Federico Buffa, qui il passo è disinvolto, il tono di voce è perfino confidenziale, i salti temporali offrono allo spettatore una visione articolata e ragionata del periodo storico e dell’avventura. Tant’è che, nonostante sia il primo anno del lustro considerato, solo nell’ultimo episodio riviviamo il momento più importante, l’unica vittoria italiana della Coppa Davis nel 1976 (le altre puntate toccano le finali raggiunte ma poi perse sono nel ’77 contro l’Australia, nel ’79 contro gli USA e nell’80 contro la Cecoslovacchia).
E non lo facciamo esclusivamente da un punto di vista sportivo – comunque decisivo, anche per la passione, la lucidità e vivaddio la fruibilità degli interventi – ma soprattutto osservando e comprendendo quell’evento all’interno del suo contesto storico-politico: prima la feroce battaglia politica che imperversò da noi altri, con i conflitti tra i comunisti diffidenti e i gli scafati democristiani più aperti, per impedire la trasferta nel Cile devastato dalla dittatura di Pinochet; e poi con la celebrazione, inattesa e piuttosto toccante, della diplomazia italiana che “usò” l’occasione del torneo per proteggere dissidenti politici (molto giusto l’omaggio al funzionario Tomaso de Vergottin, che continuò l’opera di salvataggio del predecessore Piero De Masi).
Ma il punto di forza è proprio la Squadra, con i quattro componenti (Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci, Adriano Panatta, Tonino Zugarelli) e l’allenatore non giocatore (Nicola Pietrangeli) convocati a raccontare ciò che fu. Ognuno lo fa a modo proprio e, grazie alla sapienza del montaggio, emergono incongruenze e dissidi: non sta a noi né a Procacci spartire le ragioni e i torti, perché la verità – che è sempre un punto di vista – è tale solo se polifonica, filtrata dallo sguardo altrui, riletta col senno del poi.
Una squadraVa da sé che abbiamo a che fare con personaggi incredibili, figli del dopoguerra che hanno trovato nel tennis la possibilità di collocarsi nel mondo, in primis il dilagante e irresistibile Panatta che è quintessenza della commedia all’italiana, ma anche l’elegante e assennato Bertolucci, il compassato e ligio Barazzutti, il fumantino e ruvido Zugarelli. E Pietrangeli, il divo di un’epoca pre-sessantottina in cui il tennis era appaltato alla borghesia, che deve fare i conti con ragazzi di un’altra generazione e di una diversa estrazione.
La potenza del racconto sta anche nel rapporto tra la squadra e l’allenatore, in cui affiorano alcuni dei grandi temi della letteratura di Veronesi: la dialettica tra padri e figli, il tradimento come perdita dell’innocenza, il vitalismo per allontanare il fantasma della fine. È solo una linea, al di là della splendida aneddotica, per sottolineare la ricchezza e la densità di una serie davvero affascinante.