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Una settimana e un giorno
Israele. Dopo la morte del figlio e la canonica settimana di lutto, Vicky ed Eyal si ritrovano a raccogliere i cocci della propria esistenza.
Mentre la donna, Vicky, si sforza di tornare alla vita di sempre, Eyal stringe pian piano amicizia con Zooler, il figlio trentenne, bamboccione e pseudo-hippy, dei vicini di casa con cui hanno tagliato i ponti da anni.
Assieme, nell’arco di un solo giorno, i due uomini andranno alla scoperta di una dimensione giocosa dell’esistenza che il dramma della morte sembrava aver cancellato, così come lo stesso rapporto fra Vicky ed Eyal, anziché rassegnarsi a un cammino di dissoluzione, potrà aprirsi a un barlume di speranza.
Si apre nell’atmosfera lugubre e nei toni disfatti di una tragedia già avvenuta, ma Una settimana e un giorno, lungometraggio di Asaph Polonsky, cineasta israeliano, continua e si evolve fuor di dubbio come una commedia, indiscutibilmente impregnata di umorismo ebraico, stralunato e surreale, che potrebbe piacere a Jim Jarmusch.
Ben scritto e calibrato, seppure altalenante nel ritmo, il film riesce a imprimere accenti di verità, grazie anche a un cast ispirato, a situazioni ormai canoniche come la fumata dello spinello o i siparietti consueti con il bambino/la bambina di turno.
La riflessione sul dolore e sull’elaborazione del lutto, per una volta, è affrontata con mano leggera e senza sfociare nel demenziale; la comicità, dosata con attenzione, forse troppa, poggia giustamente sul carattere dei personaggi e sulle relazioni che si costruiscono man mano.
La regia, infine, si mantiene corretta e senza sbavature, concedendosi qualche guizzo di autorialità solo nel finale, quando prova a far convergere, con una sobrietà inattesa, la vicenda luttuosa del protagonista con quella di una donna morta di recente e seppellita al fianco del figlio.
Un puro escamotage drammaturgico, si potrebbe dire, ma tremendamente efficace nel rammentare in qual modo l’esperienza traumatica della perdita sia comune a ciascun essere umano.