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Una buia notte lunga dodici anni. Notte passata in carceri disumane, avamposti freddi e inospitali trasformati in prigioni, celle puzzolenti. Uruguay, 1973. Il futuro presidente del paese Pepe Mujica viene arrestato insieme ad altri due compagni tupamaro durante un’azione segreta con l’evidente scopo di annientare l’opposizione. L’obiettivo non è però uccidere i resistenti, fatto che potrebbe scatenato rivolte, piuttosto farli diventare pazzi.
Le giornate dei prigionieri sono segnate dal vuoto, dalla totale assenza di riferimenti. Nessuna notizia arriva loro. Non possono parlarsi, incontrarsi, scrivere. Tre uomini in balia del nulla, sostenuti esclusivamente dagli ideali politici e da una profonda umanità che anche nelle peggiori condizioni fa loro provare empatia persino per i carcerieri. Un tragitto nell’oscurità guidato da un’unica luce, la fiducia incondizionata verso gli uomini.
La noche de 12 años, spiega lo stesso Alvaro Brechner, racconta senza sconti l’incredibile calvario di privazioni subite da Mujica e i sodali partendo dalla domanda di ciò che resta di un essere umano a cui è stato tolto tutto. A rendere attuale l’operazione, pur tratta da una storia vera, è proprio l’assunto universale adattabile a ogni uomo che cada preda di un regime totalitario o di uno stato che non vigila, come dimostra la vicenda di Stefano Cucchi.
Al pari di Sulla mia pelle, anche il film di Brechner riflette dunque su questioni universali che hanno a che fare con i diritti fondamentali di ogni cittadino. E per questo anche La noche de 12 años è un’opera necessaria che solleva questioni sulle quali non si deve mai smettere di riflettere. È bello pensare che il cinema civile, a qualsiasi latitudine, abbia ancora un senso.