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Se il cinema italiano emergente gioca sulla spontaneità, il naturalismo, il pedinamento e tutta una serie di derivazioni neorealistiche, Sebastiano Riso punta consapevole al mélo, alla tensione fosca, alla cupezza costruita di immagini, luoghi, personaggi e sentimenti. Se ci si passa il paragone, punta al cinema di Fassbinder (con le dovute differenze e distanze). E lo conferma anche il suo secondo film, Una famiglia, in concorso a Venezia.
Il film racconta di una coppia - lui francese, lei romana, lui borghese, lei donna dal passato tormentato - che vivono mettendo al mondo figli che poi vendono a ricchi che non possono (o vogliono) averne. Ma questo rapporto borderline oltre il limite dell’abuso si comincia a incrinare quando lei vorrebbe tenersi il nuovo feto che ha in grembo. Scritto dal regista con Andrea Cedrola e Stefano Grasso, Una famiglia reinventa storie reali e atti processuali sul tema dell’utero in affitto e sul macro-tema della maternità attraverso un melodramma dal sapore ottocentesco.
Come una sorta di Primo amore di Garrone con la gravidanza al posto dell’anoressia, Una famiglia sceglie di concentrarsi sul rapporto intimo ed estremo tra i due, partendo dai loro corpi e ampliandosi ai loro passati, al mondo che li circonda o li ha circondati: per farlo, Riso cerca soprattutto il lavoro di regia, la costruzione del ritmo ossessivo con cui far muovere la macchina da presa attorno ai due protagonisti (brava Micaela Ramazzotti, molto bravo Patrick Bruel), del rapporto viscerale tra personaggi e fisicità degli attori.