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"Tutto è collegato a tutto” sentenzia Leonardo Da Vinci.
La frase in esergo sorregge senso, immagini e morale delle quattro puntate della docu-serie anglosassone Un mondo di vita (titolo originale, al solito più appropriato, Our Living Word) che ha debuttato su Netflix il 17 aprile a ridosso della Giornata Mondiale della Terra. Un titolo che rimpolpa la già cospicua offerta Netflix – tra altre docu-serie e fiction – all’insegna dell’ambiente e della sua sostenibilità (un’operazione simile fu approntata già un anno fa con le otto puntate di La vita sul nostro pianeta).
Competizione, sopravvivenza, interconnessione, responsabilità, biodiversità, equilibrio sono le chiavi di volta di questa narrazione di fascinoso realismo guidata dalla voce di Cate Blanchett (operazione simil Voyage of Time – Il cammino della vita di Malick per l’attrice) che umanizza, metaforizza, spiega, vezzeggia, narrativizza, ironizza sulla precaria e assoluta interdipendenza del regno animale (quindi anche umano) con l’ecosistema naturale.
Quattro episodi di una cinquantina di minuti l’uno per quattro registi (Laura Coates, Kristine Davidson, Peter Lown, James Shelton) a scandire un ragionamento a tappe (i reciproci destini di animali e Pianeta; la sincronia tra vita e cicli naturali; la minaccia dei cambiamenti climatici; la reintroduzione delle specie come speranza e palingenesi), che, per convincere, non risparmia in CGI e punta deciso sul meraviglioso, sullo sbalordimento della suadente diversità e interdipendenza del regno naturale con le specie animali.
I registi lavorano in ampiezza, abbracciano continenti e unificano lo spettro del visibile, scavano nel tempo (attimale e millenario) come nello spazio, nell’aereo come negli abissi marini, negli Oceani come negli acquitrini, connettono l’Antartide all’Africa, l’inverno all’estate, le libellule ai buoi a ribadire la stretta, miracolosa interdipendenza di ogni specie vivente con il contesto di vita e con gli animali che lo abitano.
A ralenti, panoramiche, suggestivi campi lunghi e dettagli microscopici, corrispondono rinoceronti (nel traffico nepalese), renne artiche e aguti amazzoniche, coccodrilli sahariani, libellule e rane, buoi muschiati e salamandre. Predatori e predati che furono predatori di predatori.
Nella grande rete della Terra nessun gesto va perduto, nessun moto è senza conseguenze, nessun atto si esaurisce in sé stesso, eppure la mina in grado di far saltare in aria questo equilibrio tanto fragile quanto prodigioso è rappresentata dall’animale più “evoluto”, l’uomo.
Dalla prospettiva di sguardo e di analisi della vita animale erompe con più forza discorsiva, nella terza puntata, la drammatica minaccia rappresenta dai cambiamenti climatici, gli stravolgimenti che può creare tanto all’uomo quanto alla più piccola specie vivente di qualsiasi angolo del pianeta.
Ma nella violenza predatoria, nella lotta per la sopravvivenza, nel cataclisma ambientale, nel piccolo e nel grande, nell’unico e nel molteplice, Un mondo di vita si concede, in clausola, una speranza di salvezza, ribadita nella ciclicità del tema (l’impronta dell’essere umano sul pianeta come alfa e omega della serie) che passa dalla consapevolizzazione dei gesti anche minimi, nella convinzione, sussurra Blanchett che, “se manca un solo anello l’intera rete inizia a sgretolarsi”.